Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Nel 1973 le Forze armate del Cile organizzarono un colpo di stato contro il governo del Presidente Salvator Allende. Il Generale Augusto Pinochet prese il controllo del paese. Dopo 15 anni il dittatorePinochet subì forti pressioni internazionali per legittimare il suo regime. Nel 1988 il governo indisse un referendum. Il popolo avrebbe votato SI o NO alla sua permanenza per altri 8 anni. La campagna elettorale sarebbe durata 27 giorni, con 15 minuti giornalieri di spot per il SI e 15 per il NO.
Partita la campagna referendaria, uno dei leader dell'opposizione, José Tomas Urrutia (Luis Gnecco), cerca di convincere il giovane e talentuoso pubblicitario René Saavedra (Gael Garciá Bernal) a guidare la campagna elettorale del partito del NO. Renè accetta nonostante le pressioni insistenti del suo capo Lucho Guzmán (Alfredo Castro), un uomo molto vicino al governo del Generale, che lo esorta a rimanere al suo posto data la posizione sociale che ormai occupa. Ma l'esperienza di esule in Messico gli ha fatto conoscere il volto crudele della dittatura, un volto che vede comparire ancora spesso tramite l'attivismo della moglie Verónica (Antonia Zegers), con la quale intrattiene un rapporto alquanto complicato. Non senza generare contrasti interni anche accesi, Renè intende puntare decisamente su una campagna referendaria divertente e briosa, fatta di canti, balli e jingle tormentoni, tutta incentrata sullo spot "Chile l'alegria ya viene".
"No-I giorni dell'arcobaleno" di Pablo Larrain arriva a chiudere un ideale trilogia (dopo "TonyManero" e "Post Mortem") sulla storia del Cile durante gli anni della dittatura di Augusto Pinochet. Mischiando fatti reali e situazioni di finzione, il film, oltre a documentare ottimamente la campagna referendaria del 1988 di cui prende in prestito numerosi immagini di repertorio, fornisce un'acuta riflessione sulla centralità dei media sulla sorte della democrazia a sul potere affabulatorio delle immagini, aspetti questi che, al di là delle finalità che si propongono, buone o cattive, giuste o ingiuste, belle o brutte, seguono sempre le stesse dinamiche. Adoperando una messinscena volutamente approssimativa (in formato 4/3), con delle immagini mosse, colori sgranati e luci che tagliano improvvise la scena, Pablo Larrain ha di fatto ottenuto una continuità estetica e, quindi, temporale tra la finzione cinematografica e gli spot elettorali trasmessi dai notiziari dell'epoca. "Quindici minuti di spot giornalieri a testa" prescrive la regola. Poi, tutto il resto, rimarrà televisione di regime, quella allineata con lo status quo, quella che edulcora le parole per renderle il più possibile consolatorie, quella che reprime sul nascere ogni forma di dissenso contro la morale corrente. In queste condizioni è pressochè impossibile far passare un messaggio alternativo sfruttando i pochi minuti "gentilmente" offerti dal regime militare. Occorre perciò essere spiazzanti e puntare decisamente su un radicale cambio di metodo comunicativo. L'idea temeraria di Renè è quella di puntare su idee in continuo movimento e non di rimanere legati al contingente, di prescrivere un idea di Cile votato ad un gioioso ottimismo e non limitarsi a descrivere ancora una volta i crimini perpretati dalla dittatura. Di infondere un allegria che sappia essere contagiosa e non suscitare quella pietà che non cicatrizza mai la paura. L'esperienza all'estero di Renè gli è bastata a fargli capire che il mondo sta cambiando e che se il partito del NO vuole coltivare qualche speranza di vittoria deve essere bravo a portare il nemico in un terreno che non conosce, costringerlo a confrontarsi con un linguaggio che non sa ancora dominare a dovere. Occorre mostrarli davanti al mondo come il retaggio di un passato che sta per essere spazzato via, come un qualcosa di sostituibile con dell'altro senza che questo passaggio possa arrecare pericoli di sorta. Chi comprende bene queste cose è Lucho Guzmán, un personaggio assolutamente centrale nell'economia poetica del film (e non poteva essere altrimenti visto che ad interpretarlo è Alfredo Castro, l'attore feticcio di Larrain qui in un ruolo solo apparentemente secondario), strenuo difensore di Augusto Pinochet eppure corteggiatore instancabile del talento creativo di René Saavedra. Lucho Guzmán è una figura alquanto enigmatica, annusa l'incertezza dell'esito referendario ed è pronto a rimanere in sella quale che sia l'esito della contesa. Incarna l'uomo che sembra aver capito l'aria che tira e sa che il mondo dei media a cui lui appartiene ha le potenzialità per indirizzare a comando i cambimanti in corso. Ben oltre gli stati d'animo e gli slanci sentimentali dei protagonisti, o il quadro storico che offre loro un'adeguata cornice psicologica, credo che sia la coscienza ferita di un intera nazione la vera protagonista dei film dell'autore cileno, aspetto questo che fa emergere una precisa idea di cinema e di paese che tendono a intrecciarsi l'un l'altra fino a diventare un tutt'uno. Larrain lascia sempre fuori campo le cose essenziali : la violenza praticata dal regime militare, il popolo che la subisce e le potenze straniere (con gli USA in testa per distacco naturalmente) che la legittimano con il loro attegiamento passivo. Solo marginalmente Larrain ci mostra i militari in azione, i volti dei tiranni o il popolo intento a leccarsi le ferite, per il resto, si concentra sulla gratuità della morte scaturita dai germi involutivi di una società deviata ("Tony Manero"), sulla freddezza burocratica che svolge asetticamente e con pieno senso del dovere la rituale autopsia ad una nazione intera ("Post Mortem"), o sulla ricerca del miglior format televisivo possibile per convincere la gente a dire un NO risolutivo contro un regime criminale (come in questo film). Effetti collaterali prodotti da un paese in profonda crisi d'identità. Quello che ne scaturisce è la rappresentazione di un paese che le sue belle speranze le ha viste evaporare quando, insieme a Salvator Allende, è morta un'idea di democrazia veramente scaturita dal popolo. Oltre al pessimismo di Pablo Larrain (che agisce sempre sotto traccia), il quale sembra volerci dire che, fermo restando la bella pagina di democrazia scritta con la vittoria del partito del NO nel referendum del 1988, il regime di Augusto Pinochet è stato sconfitto semplicemente perchè non rispondeva più alle mutanti esigenze internazionali. Per quanto possa sembrare paradossale, questo aspetto della poetica di Pablo Larrain trova conforto nella constatazione empirica che il popolo cileno, quando ha potuto scegliere liberamente per chi votare, senza pressioni interne o ingerenze esterne, ha vinto. Sconfiggere una dittatura assoggettandosi all'ideologia dei modelli culturali dominanti può rappresentare un salto nel buio tutto da decifrare. Può significare mimetizzare la gestione di un potere che comunque mantiene un indole "padronale", non sconfiggerlo del tutto. In quest'ottica, particolarmante emblematica, a mio avviso, è tutta la parte finale del film. Accertata la vittoria del partito del NO, la telecamera registra la gioia che serpeggia per il paese ma si concentra sul volto di Renè Saavedra, che è quello di chi ha appena finito di portare a termine un progetto ed è già proiettato verso la programmazione di un altro. Infatti, poco dopo, lo vediamo accanto a Lucho Guzmán alla presentazione di una Telenovelas il cui spot ricalca un estetica tipicamente "holliwoodyana" e degli stilemi mutuati dal personaggio di James Bond. "Quello che vedete è in linea con l'attuale contesto sociale. Noi crediamo che il paese sia pronto per questo tipo di comunicazione. Siamo onesti, oggi il Cile pensa al suo futuro", dice Renè Saavedra. Quale futuro si chiederà certamente Pablo Larrain. Forse, la sua idea di paese in proposito la vedremo rappresentata nel prossimo film.
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