Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Il nucleo poetico fondamentale di quest’opera un po’ didascalica di Larrain risiede non tanto nella faccenda politica (democrazia vs dittatura), quanto in quella mediatica. Certo, la denuncia e l’indignazione per i soprusi del regime di Pinochet non mancano, ma non è questo lo scopo degli autori. Il protagonista (un misurato e convincente Bernal, tra i migliori giovani attori contemporanei) non è in ideologo del progressismo, ma un brillante pubblicitario. Non è un socialista allende-iano, ma un individualista libertario che viaggia in skate-board. La sua creatività può essere messa al servizio di una causa qualunque, anche quella del capitalismo più sfrenato. L’arte del mentire, del manipolare, dell’illudere, tipica di tutti i media (in primis, la pubblicità) si applica indifferentemente a qualsiasi causa, anche la più nobile. Esteticamente, questa indifferenza emerge nella seconda parte, dove gli spot pubblicitari d’epoca invadono la gran parte del narrato, rendendo l’idea di un Cile caotico, dove non si distingue più il bene dal male, né il vero dal falso, e tutto ciò che si vede sullo schermo è una rutilante e farsesca esplosione di colori irreali, slogan tagliati con l’accetta, menzogne edulcorate: l’archetipo della società post-moderna, globalizzata, mediatizzata, al tramonto delle vecchie dittature.
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