Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Dopo lo straziante ed asettico dolore di Post mortem, tragica attestazione di un’impossibile felicità all’alba della dittatura di Pinochet, il Cile di Pablo Larrain sceglie l’allegria come unica via d’uscita attuabile. No (l’improbabile e didascalico sottotitolo I giorni dell’arcobaleno mi fa venire in mente una canzone con cui Nicola di Bari vinse Sanremo nel 1972) è l’ideale contraltare del dramma precedente, perché racconta il retroscena della fortunata ed azzardata campagna pubblicitaria con cui il Cile riuscì ad uscire dalla dittatura di Pinochet attraverso lo sguardo del responsabile operativo dell’operazione, il Gael Garcia Bernal ormai eletto ad unico volto possibile di un certo cinema sudamericano impegnato.
Malgrado una dimensione meno indipendente e un’eco più internazionale (nomination all’Oscar per il miglior film straniero), Larrain non tradisce il suo stile secco e privo di fronzoli e lo uniforma alla fotografia sporca ed essenziale degli spot messi in onda, come a sottolineare un ideale legame anche iconografico tra realtà di un Paese segnato dal dolore e dalla miseria e realtà messa in scena per costruire, più che il consenso per il “no”, la consapevolezza della necessità del “no”. Per quanto il film abbia una funziona sicuramente celebrativa nell’ambito della rinascita di una cinematografia emergente e giovane, l’ovvia presa di posizione a favore del comitato dei partiti democratici non induce Larrain ad una visione agiografica: il René di Bernal non è un eroe, ha certamente una sua identità positiva ma anche un’ambizione talvolta poco in linea con le esigenze reali della popolazione, un interesse più tendente alla bellezza dello spot che all’efficacia del messaggio, quasi la manifestazione di una compromissione con la dottrina della pubblicità imparata negli States.
È comunque un meccanismo atto a mettere in luce l’ingenuità e il fermento di un momento irripetibile con cui nemmeno i partiti democratici riescono sempre a misurarsi adeguatamente (inizialmente si votano inevitabilmente alla sconfitta), perché la fazione fascista è naturalmente rappresentata con disprezzo e rabbia (militari volgari, collaboratori cafoni, milizie violente). Solo il capo di René (il feticcio, nonché eccellente, Alfredo Castro) che coordina la campagna per il “sì” più per conformismo che per convinzione ha diritto ad un perdono finale in nome della riconciliazione e della pace (malgrado l’ingresso nella democrazia avvenga in maniera morbida e senza l’eliminazione di Pinochet).
No è un film sicuramente importante da un punto di vista squisitamente politico (come pure suggestivo: pensate alla timidezza delle nostre campagne pubblicitarie a sinistra e alle similitudini, sia dalla parte fascista che da quella opposta, con gli spot di Berlusconi) e con le potenzialità di essere un cult movie per una certa generazione di sensibilità democratica, ma al di là del suo intento pedagogico è più interessante prenderlo in considerazione per le sue scelte tecnicamente intrepide e per l’insolita atmosfera che contamina l’attesa di un’allegria imminente, la speranza di un nuovo corso, il dolore del passato (lancinante il pezzo sui desaparecidos). La sequenza che precede il finale è emblematica: come si gestisce una vittoria sofferta dopo anni di angoscia senza ripiegarsi nella solitudine e nella paura?
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