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No - I giorni dell'arcobaleno

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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La recensione su No - I giorni dell'arcobaleno

di (spopola) 1726792
8 stelle

No, l’ultima fatica cinematografica di Pablo Larraín, è un’altra sorprendente operazione di recupero della coscienza e della memoria, totalmente calata “dentro” la storia del Cile, esattamente come lo era Tony Manero (ispirata indagine nel cupo 1978, su un aspirante ballerino e omicida seriale compressa in una specie di dissociazione quasi schizofrenica delle cose, fra il dramma di una dittatura feroce capace di insinuarsi nelle coscienze dei più e di condizionarne ogni aspetto della vita quotidiana, e il mito aberrante del consumismo americano) e il successivo, straordinario Post Mortem(storia di un oscuro impiegato all’obitorio di Santiago del Cile, che nei giorni del golpe di Pinochet assiste “indifferente” all’autopsia di Salvatore Allende, e alla carneficina dei troppi dissidenti massacrati: un film che attraverso la rappresentazione feroce e crudele del disappunto di un singolo uomo un po’ frustrato e delle sue esecrabili reazioni, ci parla in proiezione delle disumane concezioni di un dittatura barbara e scellerata, diventandone lo specchio e la tragica metafora).
Questa volta, il regista cambia forma e registro, limitando anche il contributo di Alfredo Castro, il suo attore “feticcio” che aveva reso indimenticabili le figure umanamente discutibili dei protagonisti dei due sopraccitati titoli (qui presente in un ruolo più marginale ma altrettanto ambiguamente laido per la sua natura di doppiogiochista)  per raccontare ancora “a suo modo” il riscatto delle opposizioni che, nel 1988, vinsero il referendum voluto dallo stesso Pinochet con l’intento di rafforzarsi e restare in carica per altri dieci anni, ma che gli si rivoltò contro come un boomerang. Un’altra storia vera dunque che diventa il lucido e necessario tassello conclusivo di una inusuale (per forme e contenuti di rappresentazione) trilogia sulla dittatura fascista cilena.
Mescolando finzione e footage,  con No Larraín nel fornirci ancora una volta la perfetta immagine dell’epoca presa in esame, prova quindi a ricostruire con una stupefacente fluidità narrativa emozionalmente pregante e totalmente priva di retorica che si confronta e gioca con il per lui insolito registro dell’ironia (una piacevolissima novità rispetto a quello stile secco ed essenziale, quasi prosciugato che lo aveva imposto con prepotenza all’attenzione della critica internazionale) la contraddizione sociale di quegli anni di fine di decennio e il rapporto complesso tra la forza delle idee e la loro possibile efficacia che si determinò in un clima privo di certezze come quello. Si può dunque affermare che si tratta di una scelta felicissima e necessaria  quella opzionata dal regista, che diventa la definitiva conferma di un inusuale talento fuori da ogni schema. Non dobbiamo però ritenerci sorpresi da questa inversione di tendenza che avremmo potuto persino sospettare come possibile evoluzione narrativa, visto che il nuovo principe del cinema civile cileno (come lo ha definito Andrea Bellavista), era già stato capace  di sorprendere e di spiazzare con le sue incursioni nel genere (vedere per credere per lo meno la serie Tv Profugos) che già lasciavano intravedere differenti prospettive di visione.
Una modalità dunque un po’ disincantata ma efficacissima, per presentare quei fatti diventati Storia, e soprattutto per ricordarci come proprio i “no” al dittatore riuscirono insperatamente a vincere uno scontro in apparenza quasi disperato, viste le condizioni di un Paese da troppi anni sotto il dominio terrorifico di un despota assoluto che continuava a considerarlo sua legittima ed esclusiva proprietà  e che solo per le forti pressioni internazionali era stato costretto a indire un referendum come quello, che era comunque sicuro di vincere avendo totalmente in pugno la nazione e che fu invece l’evento che segnò l’inizio della fine di quel perverso regime di militari al potere.
L’obiettivo che ribaltò ogni pronostico, fu raggiunto infatti perché coraggiosamente si decise di adottare una strategia comunicativa non solo capillare, ma anche insolitamente audace e innovativa, quasi fantascientifica visti i tempi, soprattutto se si pensa che fu progettata e realizzata da una sinistra sicuramente tutt’altro che domata, ma sfiancata e quasi disintegrata da anni e anni di lutti e di soprusi subiti, perpetrati da quella dittatura sanguinosa che  - quasi  ritenendosi immortale - continuava a soffocare con ferocia inaudita ogni focolaio che provasse anche timidamente ad alzare la voce per avversare quell’immenso potere di  despota assoluto.
 
Al centro del film questa volta c’è un giovane uomo, René Saaveda (ben interpretato dall’intensa prova di un ritrovato Gael García Bernal) che di mestiere fa il pubblicitario, ritornato in Cile dopo molti anni di volontario esilio in Messico (dovuto alla fuoriuscita dal paese dei suoi genitori per scampare alla prigionia e al massacro), forte di una nuova sensibilità comunicativa imparata sul campo, ispirata al modello occidentale (soprattutto Americano) intriso di liberismo e di suggestioni emulative, per lavorare – grazie alla sua fama - dentro una grossa agenzia il cui capo è stato ingaggiato dal potere proprio per realizzare appropriate campagne di “aggregazione popolare” a favore del sì..
Un uomo che se ne intende davvero dei media e di come devono essere utilizzati per risultare efficaci, perchè la sua attività formativa finalizzata a inventare messaggi anche illusori per “incrementare il consumismo” lo aveva già portato a maneggiare in maniera appropriata e convincente tutte quelle affascinanti evocazioni fatte di case luminose o di automezzi  di grossa cilindrata, che creano il “desiderio” e finiscono  per orientare in positivo le attese, le bramosie e gli acquisti di un pubblico fruitore da ammaliare e convincere persino al di là dei propri bisogni, ma che sceglie però di  prestare la sua opera e il suo sapere, a esclusivo supporto dei “no”, e questo in virtù della sua profonda e radicata coscienza politica pregnata da un romanticismo un pò aggressivo fortemente combattivo che non è mutata negli anni, ma si è semmai radicalizzata, e con la  folgorante intuizione costruita su anni di esperienza all’estero, che per “disarcionare” un dittatore da abbattere ad ogni costo se si vuol tornare a pensare ad un possibile futuro, si deve puntare sull’ottimismo, adoperando a proprio vantaggio persino quelle armi “consumistiche” che in genere sono appannaggio del nemico, oltre che tutti i mezzi condizionanti che utilizza la pubblicità creativa, così da impostare alla fine gli spot politici di supporto alle tesi elettorali dei dissidenti, come se si trattasse di una campagna pop per la promozione di un qualunque prodotto commerciale, basata sull’allegria della lotta per la libertà.
 
La sua è dunque una sfida più politica che professionale che deve superare molte resistenze prima di riuscire a imporre la propria idea, visto che molti dei personaggi politici impegnati sul suo stesso fronte, indubbiamente più influenti sotto il profilo delle decisioni pratiche, avrebbero voluto invece partire all’attacco impostando la campagna referendaria portando in primo piano i consueti cavalli di battaglia della sinistra (la mancanza di libertà , le uccisioni subite, le torture, la disoccupazione e la povertà crescente). Cose sacrosante e giuste naturalmente, verità acclarate, ma talmente scontate ed usurate (persino un tantino iettatorie si potrebbe dire) da essere alla fine anche fortemente inefficaci per riuscire ad aggregare grandi masse e con le quali stando alle cronache recenti, difficilmente si riesce a uscire davvero vincitori a causa della loro azione “depressiva” sul morale.
Supportato dalle conoscenze acquisite e dai concreti  risultati conseguiti con le sue precedenti campagne “consumistiche”, René propone quindi di rispondere a questa tendenza “realisticamente”  votata al “tragico”, con una visione più ottimistica, fondata sulla speranza e l’avvenire fatta di sole e di coloratissimi arcobaleni (Chile, la alegría ya viene, si cantava in uno di quei filmati diventati leggendari) e alla fine otterrà la necessaria e totale carta bianca per operare con quella differente strategia che si confermerà l’arma vincente di una battaglia che sembrava disperata.
Il film è praticamente questo: il faticoso resoconto di un percorso tutto in salita verso una vittoria che dà il primo scacco matto al potere, paradossalmente raggiunta utilizzando proprio i “convincenti” mezzi che di solito sono esclusivo appannaggio della controparte.
Sappiamo bene comunque che il cinema di Larraín punta soprattutto sulla riflessione critica dello spettatore, e quindi anche in questa circostanza lui utilizza di nuovo la cronaca di remoti fatti reali mischiandoli con personaggi credibili ma di pura fantasia “narrativa”, per farci ragionare, per parlarci indirettamente anche dell’oggi (e questo evita il pericolo della  sterile “celebrazione” a posteriori di un evento epocale).
La principale forza della sottile costruzione affabulatrice del regista (esattamente come era accaduto con le sue precedenti opere) risiede infatti ancora una volta nel riuscire a far immergere lo spettatore dentro l’attualità frustrante di un’antica campagna referendaria che potrebbe però riguardare anche il presente, ed proprio con questo spirito che attraverso il sapiente utilizzo di una “forma” rappresentativa molto ragionata e in modo tutt’altro che demagogico, lo spinge corpo e anima dentro quei mesi, quell’epoca, quell’infuocato clima di contrapposizione che era e rimane una lezione civile e universale di cui tenere conto per ragionarci sopra.
Larraín infatti non crea nessun tipo di distacco (anche critico)  tra le immagini di venticinque anni fa riprese dagli archivi e quelle invece girate nel presente per ricostruire quel “mitico 1988”. Utilizza insomma intelligentemente la narrazione di “finzione” alternata a reportage, interviste, documenti, materiale d’archivio e spot televisivi veri, con un lavoro costante di rimandi che si intersecano e dialogano fra loro, e riesce così a collegare il tutto strettamente e indissolubilmente in un unicum senza soluzione di continuità, ricorrendo anche per le immagini “inventate” (straordinaria intuizione la sua), ai medesimi strumenti tecnologici con i quali si facevano le riprese nel 1988: fregandosene dei mezzi della modernità a sua disposizione, adopera infatti per filmare, lo stesso sistema di allora, il ¾ U-matic (chissà dove è riuscito a scovarla quella vecchia cinepresa), e il risultato è proprio quello di farci percepire fotogrammi uniformi sotto ogni punto di vista (grana, composizione, colore, tipo di inquadratura) evitando così pericolose cesure o discontinuità grazie proprio a quella perfetta omogeneità cromatica ed estetica che passa disinvoltamente dalla ricostruzione al filmato originale (di fatto, tutto viene mostrato all’interno dello spazio televisivo) con una stupefacente coerenza osservativa.
Ed ecco allora che ci troviamo a seguire il creativo pubblicitario protagonista di questa esaltante avventura, prima nel momento in cui  pensa e prepara, per passare poi a quello in cui  realizza quei proverbiali “convincitori visivi” che subito dopo ci vengono mostrati esattamente per come erano andati in onda allora  in un crescendo narrativo davvero ammirevole e per più di un verso strabiliante. Ci troviamo così proiettati in un passato che osserviamo però con gli occhi e la mente del presente e la bassa definizione di allora. Si ottiene così quasi un corto circuito temporale che ci fa rivivere in diretta quel tempo lontano con la trepidazione, l’ansia e l’incertezza di chi non conosce ancora come andarono poi effettivamente le cose, se quella opzione ardimentosa e anomala portò alla sconfitta di Pinochet con la vittoria dei no o se invece determinò la debacle definitiva dell’opposizione, e sono proprio le scelte stilistiche messe in campo a compiere questo miracolo, e a confermare l’importanza anche intuitiva di un regista capace di farci superare ben venticinque anni di vissuto e di eventi non tutti in positivo, che ci permettono di ritrovarci catapultati in diretta proprio dentro a quella storia, la storia di una incredibile vittoria (Bruno Fornara su Cineforum, che ho letto attentamente e dal quale ho proso alcuni spunti e qualche annotazione di "conferma" per le mie impressioni, poichè il film l'ho visto in lingua originale senza sottotitoli, e quindi con tutte le difficioltà del caso per una perfetta fruizione) per gioire del risultato come se quello che vediamo fosse successo adesso (un invito a ritrovare la speranza nel cambiamento?).
Della maiuscola interpretazione di Gael García Bernal ho già accennato sopra, davvero perfetto nel disegnare la figura di un uomo che dopo aver contribuito a riscrivere la storia con una intuizione che potremmo definire “elementare”, prende in braccio un bambino e si allontana in silenzio quasi in punta di piedi, senza nemmeno partecipare ai festeggiamenti, pronto a  passare oltre, come potrebbe essere scrivere una nuova pubblicità per un altro prodotto o per un’altra soap opera, senza alcuna differenza metodologica se non quella dell’impegno civile e della personale convinzione. Ottimi come al solito tutti gli altri contributi tecnici e di supporto.
 
Presentato in una delle sezioni collaterali dell’ultimo Festiva di Cannes, No si conferma dunque come una delle pellicole di maggior valore passate da quella rassegna, di quelle insomma che meriterebbero ampiamente di uscire dal limbo e di aspirare al più presto a una distribuzione “certa” anche qui in Italia  per l’interessante lavoro di scavo dentro un paese martoriato come il Cile ancora una volta filtrato attraverso le esperienze del singolo.

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