Regia di Joseph Kosinski vedi scheda film
Nato da un’idea dello stesso Kosinski che doveva diventare un romanzo grafico e si è poi trasformato in film, Oblivion rende molti omaggi ai suoi precursori nelle varie arti. All’immancabile 2001, rintracciabile nella forma dei droni e nella prevalenza del bianco asettico (oltre che al nome dell’astronave Odissey), Kosinski fa diretto riferimento anche attraverso l’intelligenza aliena incastonata in un oggetto (e incarnata da un “occhio rosso” parlante) simile all’enigmatico monolite ma con una fame di energia e vita che rimanda al Galactus della Marvel, il divoratore di mondi dotato qui di una strategia offensiva di assimilazione quasi Borg. È anche inevitabile pensare, al netto della sua tenera ironia, a Wall-E nella rappresentazione di una terra devastata e abitata da cervelli artificiali, un mondo di scorie disertato quasi dagli umani, a cui si aggiunge il retaggio di molti film catastrofici (Il Pianeta delle scimmie, A.I. – Intelligenza artificiale) per l’utilizzo di punti di riferimento topografici (americani) noti ma cancellati dalla mutazione della superficie del pianeta per segnalare il disastroso passaggio del tempo. Ma la pellicola con cui Oblivion ha più punti in comune è Moon, con il condiviso assunto che la manodopera è merce umana alienata a sua insaputa e facilmente riciclabile, con il proletariato trasformato in prodotto senziente sottoposto, per il suo corretto funzionamento, ad una finzione globale di stampo dickiano, la creazione di un universo fittizio e coordinato non distante da quello di Matrix ma in cui alle macchine si sono sostituite intelligenze ugualmente artificiali ma aliene, secondo uno schema di invasione e illusione totalitario con rovesciamento orwelliano delle parti.
All’interno di questo universo di specchi ed echi, il film sviluppa una lentezza espositiva che vorrebbe avviluppare lo spettatore, mentre l’antefatto viene sbrigativamente enunciato dalla voce off del protagonista e rimane lo sfondo noto dell’intera vicenda: entità extraterrestri hanno distrutto la Luna, devastato la Terra per invaderla ma sono stati sconfitti e l’umanità superstite è in orbita in attesa di spostasi definitivamente su Titano. Attento alla ieraticità dei gesti e dei movimenti di macchina, Kosinski sembra voler dare l’illusione del nuovo all’interno del noto, fare della ripetizione il contenitore del senso e della moltiplicazione l’indizio di uno sviluppo già metatestuale.
Il film inizia con una coppia efficiente di operai high-tech (un personaggio per Cruise non distante dal protagonista de La guerra dei mondi) il cui idillio sentimentale e professionale si incrina nei dubbi e nei desideri reconditi dell’uomo che vuole ritagliarsi una porzione di indipendenza e di solitudine alla ricerca di una sfuggente soddisfazione, alimentato da una memoria intermittente - forzosamente cancellata per non vanificare la tecnologia della fuga dei terrestri - in cui compare, come ossessione amorosa, una misteriosa donna. È Dick che invade la scenografia di Kubrick e la tematica di Duncan Jones, con il bianco degli oggetti e l’azzurro del cielo a contrasto col grigiore letterale della terra essiccata e quello metaforico della ripetitività di una quotidianità alienante fatta di perlustrazioni e riparazioni e un’ipotesi di calore domestico che non può che evocare il migliore desiderio di un ricongiungimento con il resto degli uomini e l’assidua ricerca della propria umanità oltre la funzionalità sociale e la finalità lavorativa.
E nel cercare una armonia di gesti e di citazioni, Kosinski costruisce un perfetto fondale in cui prevale l’artificio, dove lo snodo narrativo si intravede con anticipo sufficiente per non creare eccessiva sorpresa bensì la conferma del sospetto di una certa gratuità del progetto complessivo, manieristico nei continui rimandi e nelle scelte registiche che sacrificano a lungo l’azione e la suspense. Il film sembra cercare la costruzione di un destino ingrato, già inevitabilmente segnato nel melò che lo comprende, che lascia però adito ad un lieto fine indiretto in cui si porta a compimento le premesse del genere sci-fi catastrofico nella sintesi della sua anomala declinazione di favola amorosa in tempi avversi.
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