Regia di Joseph Kosinski vedi scheda film
L'amore che trascende il tempo, le memorie - (s)corrette, corrotte -, i sogni-ricordi: l’oblio è una mistificazione suprema, un’arma non comune e non prevista nelle mani di un’entità aliena che si nutre, letteralmente, della linfa vitale di un pianeta.
Oblivion ha il respiro un po’ affannoso, il passo non proprio lieve, la struttura narrativa elaborata e macchinosa, farraginosa: si fa fatica a seguire, ad entrarci dentro, ad appassionarsi. La faccia di Tom Cruise, sempre quella, in modalità eroe a sua insaputa, non aiuta, sebbene risulti più accettabile che altrove.
Una composizione fredda, algida - dell’impianto visivo, degli scenari, delle architetture scenografiche eleganti, della rigidità ossequiosa di Andrea Riseborough, della fissità sinistra della maschera ilare di Melissa Leo - che dà l’impressione di essere stata appositamente predisposta: è in quella liscia glaciale superficie tecnologica, infatti, che s’infiltra l’elemento amoroso, capace di scavare all’interno, di corrodere e superare le apparenze, di rimestare nel torbido di sensazioni sopite e prima solo intuite.
Ennesima variazione, ma affascinante, compreso il finale posticcio che lascia un po’ di amaro in bocca: può un - “il” - sentimento essere clonato? E può la destinataria - quella superba bellezza “aliena” di Olga Kurylenko - riversarne su un replicante e poi su un altro ancora come nulla fosse?
L'ambiente agreste della casa sul lago (del tempo) è una soluzione efficace ma non credibile né digeribile: perché portarla lì, da sola, dopo la missione definitiva?
A ben vedere ci sono diversi difetti nel film: una fin troppo riconoscibile derivatività da tanto sci-fi (il sacrificio nelle fauci del cattivissimo infido invasore come in Independence Day; i cloni umani coltivati e tenuti in una realtà alterata come in Matrix; ed ancora i ribelli terrestri, le macchine che si rivoltano contro); la non originalità di certi temi; l’eccessivo ricorso a sequenze action ed effetti speciali in stile Star Wars.
Trovare una via di mezzo tra esigenze commerciali e riflessioni romantiche-filosofiche non è cosa semplice, non di questi tempi. Joseph Kosinski, dopo Tron: Legacy, ci riprova: scrive, dirige, produce, costruisce un organismo composito, le cui parti iniziale e finale mostrano una discontinuità che si può accettare solo a patto di lasciarsi travolgere dalla crescente complessità del racconto e dagli inevitabili meccanismi tipici dello spettacolo fracassone.
E poi c’è l’amore. Lontano, appartenente a st(r)ati viscosi e intossicabili (onirici, mnemonici, di identità); perduto, offuscato, ritrovato, e poi nuovamente perso e trionfante in altre forme. In sostanza, un oggetto ben identificato e piaciuto/piacevole, che anziché aprire questioni di un qualche rilievo portandole avanti finisce col servire esclusivamente da alleggerimento all’ubriacante intreccio. Che per certi versi può risultare interessante, il problema risiede nella cattiva gestione dei tempi e in quella conclusione fatta apposta per accattivarsi le simpatie del pubblico.
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