Regia di Deepa Mehta vedi scheda film
Film di ampio respiro e grandi ambizioni, quello firmato dalla filmaker transnazionale Deepa Mehta. E d’altra parte non potrebbe essere altrimenti considerando il romanzo da cui è tratto, ovvero il lavoro omonimo di un suo illustre connazionale, Salman Rushdie. Il quale ha voluto concentrare in questo tomo ingombrante ma degno di ben tre Booker Prize la storia delle ultime quattro generazioni indiane. Il 15 agosto del 1947, infatti, il Paese dichiara l’indipendenza dalla Gran Bretagna; contemporaneamente, due neonati di estrazione sociale contrapposta vengono scambiati da un’infermiera di Bombay affinché «il ricco sia povero e il povero sia ricco». Di conseguenza le loro vite s’intrecceranno tra loro in uno schema (appena visto anche in Il figlio dell’altra) che comprende pure numerosi bambini nati in quella fatidica notte. E che ovviamente non può prescindere dalle vicissitudini recenti dell’India e dalle sue tre guerre (in questo senso la pellicola si pone come una sorta di Forrest Gump d’Oriente, con tanto di handicap fisico), a testimonianza che «la democrazia è qualcosa di molto fragile. Ovunque». Le intenzioni, quindi, sono assolutamente nobili e oltretutto è doveroso constatare la difficoltà (se non l’impossibilità) a trasportare sul grande schermo un romanzo così impegnativo. Detto ciò, non si può non riconoscere che l’epicità del film rischia purtroppo di trasformarlo semplicemente in un polpettone bollywoodiano infarcito di speranza.
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