Regia di Jonathan Glazer vedi scheda film
Dal buio un raggio s’espande, lo schermo diviene uno specchio, come se riflettesse la fonte che acceca, che crea, il fascio del proiettore. C’è una luce che cresce, al principio di Under the Skin. Un bagliore. E poi c’è un occhio - artificiale - che nasce. È la storia di un alieno, quest’ultimo, bellissimo film di Jonathan Glazer, a 10 anni da Birth. Un essere si veste di Scarlett Johansson, del suo corpo anelato da stella, fabbrica un sogno di sesso, si trucca e imbelletta, adesca e seduce i passanti tra le strade di Scozia, li accompagna nell’oscuro magma che s’apre dietro la porta di casa, li uccide in un cruising che sembra un balletto. Si spoglia lentamente - i corpi si muovono nel buio, come su uno sfinito green screen sommerso dal petrolio -, loro guardano Scarlett abbagliati dal desiderio, seguono la nudità delle sue forme tonde, ammaliati dagli occhi dolcemente svuotati, poi sprofondano nel nero: così, l’alieno si è cibato.
L’omicidio seriale continua, fino a quando nella creatura non s’instilla un’inquietudine identitaria, una quasi umana, troppo umana, fragilità. Questa è la trama - estratta da un racconto sensoriale, aggressivo e riflessivo, sempre ambiguo - ma non è questo che importa. Perché - sin dal primo istante - Under the Skin è storia, questione, dello sguardo: Glazer elude ogni premessa, elide ogni momento didascalico, annichilisce nel marcato accento scottish il linguaggio verbale (nella versione originale), annulla l’adesione psicologica seguendo un essere inumano, umilia i sentimenti facili, le emozioni usa e getta nell’antimelodia della colonna sonora, e chiede allo spettatore di decodificare (perché come in Birth, o come nel capodopera videoclip A Song for the Lovers, il fantastico si produce in chi guarda) l’enigma di ogni immagine, d’orientare un senso tra la tensione frastornante dell’audio e l’eccitamento arty e minimale del video, mettendo in crisi, continuamente, giudizio morale sui e comprensione dei personaggi.
Lascia che Scarlett Johansson raccolga sulla Ford Transit persone reali, fa sì che il set - ripreso da minuscole videocamere HD - si confonda col mondo, che il corpo della diva discenda tra la gente, ruba realtà da voyeur, guarda l’agire vero e paradossale del desiderio e poi lo astrae in frammenti che confondono allegoria ed elegante sci-fi digitale. Non solo - nello spirito del tempo - racconta di un occhio alieno e tecnologico, del suo rapporto con l’uomo, ma verifica le sue possibilità (documentaristiche e performative) in un adattamento radicalmente antiletterario, che in una stantia mitologia sci-fi esalta il ritmo dell’analogia, la capacità di sintesi metaforica del videoclip, e cerca d’inventarsi un nuovo cinema.
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