Regia di Margarethe Von Trotta vedi scheda film
Un film strano da giudicare, dagli alti e bassi clamorosi.
Ottimo per la didattica: fa capire chiaramente tutto quel che serve. L’agile antologia del processo ad Eichmann, commentata in quel modo, è perfetta. Rispetto al precedente tentativo (“Uno specialista - Ritratto di un criminale moderno” del ’99), è più incisivo: molto meglio per il grande pubblico, che non può non capire quanto conta, ovvero l’orrore del male compiuto dietro l’etica del dovere, l’obbligo della legalità, al solo fine non detto di far carriera . Quel principio socialmente accettabile, di eseguire gli ordini, nasconde tutta la mediocrità dell’assenza della coscienza morale. Il male silenzioso, commesso con il conforto del conformismo, è un male di sempre, e più che mai al giorno d’oggi, quando pure il nazifascismo non c’è più: eppure il capitalismo (come anche le dittature comuniste, che hanno però un’incidenza globale complessiva ben inferiore rispetto a quelle “dolci” del capitalismo) lo incentiva a go-go, rafforzandola con una censura indegna. “Uno specialista” resta ovviamente, però, molto meglio per un pubblico colto, per l’analisi che permette.
L’opera della Von Trotta ha un altro vantaggio nella seconda parte, quando vira sul drammatico: l’incomprensione dell’intellettuale, da parte del suo popolo, riecheggia toni socratici, e soprattutto è vera cronaca storica. La filosofa è una risorsa straordinaria per la sua comunità, eppure non se ne vogliono sentire le verità: per pregiudizio, ossia per ignoranza e meschinità.
Detto degli aspetti positivi, che comunque sono prevalenti, vediamo quelli negativi: che sono in ogni caso tanti. La prima parte indulge nella semplificazione, ben poco credibile. Che la Arendt fosse la frivola che in tanti momenti della sua vita quotidiana qui appare, è abbastanza grottesco. Non che si voglia esaltare il modello dell’intellettuale depresso, né si crede (né si sa) che la Arendt lo impersonasse: ma è difficile immaginare una studiosa di quella statura che fosse così spensierata, una divetta all’università quale qui viene spesso dipinta. Per non parlare della sorella, una macchietta al limite dello sciampista, mentre ne si vorrebbe fare il ritratto di una scrittrice di vaglia. Oddio: nella società capitalista, come quella americana lì, di scrittori di vaglia che siano mediocri come intellettuali, e che abbiamo avuto sin troppa fortuna, non mancano gli esempi, che magari hanno avuto successo proprio perché mancava loro tanto la profondità quanto l’onesta intellettuale; doti che invece hanno decretato l’insuccesso di loro colleghi, nell’immediato.
Il film è in parte riduttivo, con la sua patina commerciale, tipicamente Usa, cui si aggiunge la recitazione stereotipata, da Germania. Spesso le questioni più importanti vengono derubricate a chiacchiere da salotto. Anche se giganti come Jonas e Heidegger escono bene.
Non so se davvero, alla domanda «Come ha trovato l’America?» Arendt abbia risposto soltanto «Un paradiso». Ma delle due l’una: o è falso, è il film ci rimette; o è vero, e ci rimette Arendt.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta