Regia di Margarethe Von Trotta vedi scheda film
L'11 maggio del 1960, a Buenos Aires, i servizi segreti israeliani catturarono l'ufficiale nazista Otto Adolf Eichmann, esperto di questioni ebraiche e responsabile dell'emigrazione coatta degli ebrei verso i vari campi di concentramento. Trasportato in Israele, l'11 aprile del 1961, al Tribunale distrettuale di Gerusalemme, iniziò un processo che lo vedeva accusato di quindici capi d'imputazone tra i quali quello di crimini contro l'umanità. Hannah Arendt (Barbara Sukowa) partì per Gerusalemme come inviata del New Yorker con il cui direttore (Nicholas Woodeson) prese l'impegno di fare un resoconto dettagliato del processo non appena fosse stata pronunciata la sentenza sull'operarto dell'ufficiale nazista. Questo contro il volere del marito Heinrich Blücher (Axel Milberg), preoccupato che questo evento potesse riaprire nella moglie i ricordi angosciosi di quando la donna era una perseguitata e fu costretta ad esiliare negli Stati Uniti per sfuggire alla furia omicida dei nazisti. E anche contro i consigli dell'amico e collega Hans Jones (Ulrich Noethen), secondo il quale, il suo approccio filosofico sulla vicenda avrebbe pututo far sorgere equivoci "pericolosi". Ma Hannah Arend seguì ostinatamente la sua strada arrivando a produrre quelle riflessioni che culminarono nella stesura de "La banalità del male" (uscito nel 1964), un opera che non mancò di suscitare accese polemiche.
"Hannah Arendt" di Margarethe Von Trotta è un film "didattico" che diluisce la complessità di pensiero della filosofa in una narrazione che si apre senza indugi al vissuto della donna, dai ricordi giovanili ai tempi dell'università agl'incontri conviviali con gli amici di sempre, dall'amore col marito al rapporto contrastato con "l'amato" maestro Martin Heidegger. Le immagini del processo a Eichmann sono quelle originali di repertorio, volte a restiruirci le fattezze dell'ufficiale nazista in tutta la verità storica del caso. Naturalmente, il film si allinea alla figura pensante di Hannah Arendt, che riflette sul concetto del male alla luce di quanto visto e sentito al processo. Ciò che subito nota la filosofa riguardo alla personalità di Adolf Eichmann è "l'enorme differenza fra l'orrore inconcepibile delle sue azioni e la spiazzante mediocrità dell'uomo". É questo evidente contrasto a rappresentare la radice di una riflessione sul male da doversi compiere urgentemente, e se la donna immersa nella storia poteva riferirsi ad una visione moralmente ineccepibile per mettere nel suo giusto quadro di riferimento un male assoluto qual'è stata l'esperienza del nazismo, la filosofa non poteva non sentire la necessità di approfondirne il carattere fenomenologico, evitare che il male (filosoficamente inteso) venisse epurato della sua complessità concettuale per farlo aderire alla lettura parziale di un "rassicurante" manicheismo. Anche a costo di apparire "umanamente" distaccata o, addirittura, nemica del suo popolo a causa di quell'astrazione speculatica che sempre caratterizza il metodo filosofico votato alla "ricerca della verità". "Per ogni ebreo, il contributo dato dai capi ebraici alla distruzione del proprio popolo è considerato uno dei capitoli più disarmanti di questa buia vicenda", ebbe a scivere la Arendt a conclusione dei resoconti scaturiti dal processo ad Adolf Eichmann. Parole che, una volta pubblicate sul New Yorker, suscitarono accese polemiche e accuse ingiuriose contro la filosofa tedesca per la quale, tuttavia, era estremamente importante riflettere su questi argomenti "perchè il ruolo dei capi ebraici può essere estremamente utile per darci l'idea dell'assoluto e spaventoso cedimento morale a cui i nazisti diedero vita nella rispettabile e tranquilla società europea. E questo non avvenne solo in Germania ma anche in tutti gli altri paesi e, soprattutto, non avvenne solo tra i persecutori ma anche tra le vittime". Per Hannah Arendt analizzare il male significava dover fare i conti con la sua natura enigmatica e multiforme, mettere il luce i germi degenerativi che è capace di produrre senza esclusivamente riferirli alla sua forma più radicale ed esibita. Al centro della sua riflessione c'era l'dea dell'insensatezza connaturata nell'elaborazione stessa di luoghi come i campi di concentramento, il fatto che l'uomo veniva annientato partendo dal fargli perdere la cognizione sensoriale di qualsiasi cosa. Il male assoluto era (ed è) appunto quello che arrivava a mettere in pratica l'insignificanza della vita. Un uomo come Adolf Eichmann, rifletteva la Arendt, ripetendo di essere stato un "semplice esecutore di ordini", sanciva di fatto l'annullamento delle sue prerogative di uomo dotato di senso critico e, quindi, di essere pensante (e qui usciva fuori l'insegnamento di Martin Heidegger) capace di elaborare giudizi morali conseguenti. Da qui nacque la "banalità del male" così come concepita da Hannah Arendt per la quale, il male che una persona come Eichmann incarnava era tanto più terribile quanto più era ricondotto alle ordinarie incombenze di freddi burocrati, uomini mediocri indirazzati nelle loro azioni da una volontà eterodiretta : somiglianti più al "classico vicino della porta accanto" che all'idea "mefistofelica" di un diavolo incarnato uomo. "Cercare di comprendere un concetto non è la stessa cosa che perdonare", dovette dire la Arendt per difendersi dalle gravi accuse che gli venivano rivolte, e se Adolf Eichmann venne giustamente condannato alla pena capitale per i crimini di cui si era reso colpevole (notizia accolta favorevolmente dalla pensatrice tedesca), tutto ciò che lui incarnava imponeva al metodo filosofico di non categorizzare il male all'interno di un'esperienza storica particolare parametrandola solo con la sua estensione assoluta.
Devo dire che il merito maggiore di Margarethe Von Trotta è stato quello di ever restituito con buona resa filmica gli assunti speculativi contenuti ne "La banalità del male" senza appesantire il racconto con della gratuita verbosità. É didascalico il necessario visto che si tratta di un film biografico, poi il tutto è alleggerito da una messinscena che alterna con sobria disinvoltura i travagli intellettuali della filosofa rigorosa e vanesia con l'esistenza della donna innamorata dei suoi affetti più cari e appassionata della vita. Bravissima Barbara Sukowa (attrice "feticcio" dell'autrice tedesca) nel saper armonizzare la gravità caratteriale della studiosa, sempre pronta a combattere per difendere le proprie convinzioni, con la vitalità inclusiva di una personalità alquanto complessa. "Hanna Arendt" rientra certamente nella categoria dei "film utili" per come (ri)porta alla ribalta la figura di una pensatrice che ha offerto contributi teorici fondamentali sulla natura e le origini dei totalitarismi e le loro connessioni con l'antisemitismo ("Le origini del totalitarismo", del 1951). Un buon film insomma, di un'autrice che con i suoi film tratta quasi sempre tematiche complesse (bellissimo è, a mio avviso, "Anni di piombo", sull'esperienza del terrorismo tedesco incentrato sulle figure delle sorelle Esslin) ma che non sempre è riuscita a fare centro.
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