Regia di Margarethe Von Trotta vedi scheda film
Fuggita dalla Germania a seguito delle persecuzioni naziste, la filosofa ebrea Hannah Arendt (Sukova) trova riparo insieme all'amatissimo marito (Milberg), docente universitario come lei, negli Stati Uniti. Da qui, a guerra finita, l'autrice de Le origini del totalitarismo decide di recarsi a Gerusalemme come inviata del New Yorker per raccontare il processo ad Adolf Eichmann, il gerarca nazista catturato in America Latina dal Mossad e portato in Israele per i suoi crimini contrò l'umanità e lo sterminio degli ebrei sotto il diktat di Himmler. Da quell'esperienza nasceranno le idee per il discusso La banalità del male, che la comunità ebraica americana (e non solo) accolse malissimo.
Tornata al grande schermo 8 anni dopo Rosenstrasse, la Von Trotta conferma la sua vocazione per il cinema d'impegno (Sorelle, Anni di piombo, Rosa Luxenburg) con un film che fotografa una delle vicende più discusse che coinvolsero la grande filosofa tedesca. Il problema è che alla banalità del male corrisponde una banalità della regia che suscita stupore: non solo per il livello appena scolastico delle riprese (intervallate dalle immagini del documentario sul processo Eichman girato da Eyal Sivan e intitolato Uno specialista), ma anche per le incursioni nella trama dei risvolti sentimentali trattati alla maniera di rubriche scandalistiche, i cenni vacui all'ambiguo rapporto della Arendt con il suo maestro Heidegger, che tanto flirtò col nazismo, e per la scelta di una protagonista bollita e imbalsamata come Barbara Sukowa, attrice feticcio della Von Trotta da oltre un trentennio: la sigaretta che porta continuamente in bocca è l'apice di espressività del suo volto. A peggiorare il tutto concorre il doppiaggio italiano, di livello meno che amatoriale.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta