Regia di Margarethe Von Trotta vedi scheda film
27 gennaio 2014, Giorno della Memoria. Le sale italiane proiettano solo questo giorno e il 28 Hannah Arendt di Margarethe von Trotta, forse con il timore che sia poco attraente dal punto di vista commerciale e che avrebbe arrecato danni in questo senso se fosse stato tenuto per almeno una settimana. Oltretutto, la sensibilità che tutti quanti più o meno affermano di avere nei confronti dei dolorosi anni dell'Olocausto sarebbe stata un motivo per spingere, almeno alcune persone, a vedere il film che questa nuova annata cinematografica ci propone su questo argomento, nella speranza che queste stesse persone si adattassero alla saggia scelta di proiettare il film solo in versione originale con sottotitoli, per non abolire la necessaria diglossia che percorre l'intera pellicola, tedesco ed inglese, in uguali quantità. Giusto per evitare un altro disastro come con Le mépris di Godard.
Le speranze sono esaudite, Hannah Arendt è senza dubbio un film didattico, illustrativo, "utile" sia nel bene che nel male, eppure "necessario" e dunque assolutamente interessante. Perché in pochi, fra i giovani soprattutto, sanno chi era Hannah Arendt e cosa fece, soprattutto in funzione di una rivisitazione contestualizzata, filologica e non banale di quanto avvenuto nei terribili anni della Seconda Guerra Mondiale e dei massacri antisemiti perpetuati dalla follia omicida (dannatamente umana) dei nazisti.
La banalità del Male, l'(in)utilità del pensiero.
Tutte le polemiche sterili che si accompagnano al Giorno della Memoria del 27 gennaio e che ogni anno si rifanno all'accusa per cui "non c'è stato soltanto il massacro degli ebrei" e "andrebbero ricordati tutti gli altri massacri", sebbene da un punto di vista prettamente umano e sentimentale non abbiano tutti i torti, da un punto di vista prettamente culturale andrebbero scongiurate, e in questo senso Hannah Arendt, che illustra dinamiche storiche-filosofiche incentrandosi esclusivamente sugli eventi che seguirono la condanna del nazista Eichmann, chiama in causa una coscienza più attenta e lungimirante di fronte a quell'evento che necessita di non essere dimenticato, e non per la semplice (necessaria!) compassione nei confronti di tutte le vittime, ma perché rivela (come ha fatto anche il semplice romanzo della Arendt) che dietro il massacro dell'Olocausto non c'è la ovvia crudeltà umana, ma un sistema talmente razionale e freddo da rasentare la perversione e talmente attento a come eseguire il proprio volere senza sbavature, senza intoppi, con la massima adesione di un gruppo di persone (le SS) che pure, non dobbiamo dimenticarcelo, erano umane, da mettere in dubbio più volte che ad averlo formulato possano essere state, appunto, le menti di esseri umani. Così il film della von Trotta, che è sempre stata attratta dalle trattazioni cinematografiche di tematiche storiche/culturali, mette in scena una drammatizzazione anti-spettacolare ma concitata di tutto quello che passò la Arendt subito dopo essere stata tacciata come "antisemita", "difensore dei nazisti" e addirittura "insensibile nei confronti del suo stesso popolo" a causa del romanzo che il New Yorker pubblicò intorno al 1963 in cinque articoli e in cui lei stessa andava non solo a considerare la terribilità dell'idea per cui si celasse un "normale" essere umano dietro Eichmann e dietro la perizia con cui egli spediva gli ebrei sui treni per i Campi di Concentramento, ma anche a ipotizzare che senza l'intervento di una serie di capi ebrei, che aderirono probabilmente per paura all'esecuzione del genocidio, il numero di vittime sarebbe stato inferiore.
Nonostante ci consideriamo lontani dal 1963, il film rivela come tutto il ceto intellettuale quanto quello meno impegnato della società si ritorse contro le insinuazioni della scrittrice filosofa esattamente come oggi accadrebbe con la pubblicazione di un simile scritto. Perché La banalità del male andò a smuovere corde che non volevano essere smosse, e che si rivelarono minacciose in quanto basate su un approccio univoco, cieco e non problematico alla vicenda storica. Il film della von Trotta, in questo senso, romanzando in maniera comunque coinvolgente la vita privata della protagonista, sa gestire da un lato tutte le riflessioni filosofiche che possono essere state a capo dell'opera della scrittrice (scandagliando anche con flashback ben inseriti il rapporto che la Arendt ebbe con il rinnegato Heidegger) e dall'altro le reazioni umane/sociali/culturali che esplosero in occasione della prima pubblicazione, e che suscitarono un tale rancore nell'animo di Hannah da spingerla a riflettere sempre di più sul concetto di Male e dal mantenerla, paradossalmente, sulla stessa rotta presupposta dall'opera e che la rese odiosa agli occhi di molti. Mentre la tensione morale/filosofica va sempre aumentando, con una regia sobria che tallona i personaggi in maniera lucida (e a tratti aridamente dimostrativa) tramite carrellate di cui presto ci dimentichiamo (e se la migliore regia è quella che non si vede, sicuramente la von Trotta ci ha azzecato in pieno), il film sa centrare perfettamente l'innegabile tesi che rincorre (e che è anche quella della Arendt), ovvero il fatto che ci fu uno stretto legame fra la freddezza delle azioni di Eichmann e la sua adesione a un giuramento che prevedeva implicitamente la rimozione totale del pensiero, e dunque della morale, sulla base di conclusioni opposte, dunque, alla posizione di Heidegger, che riteneva Vita e Pensiero due dimensioni parallele ma mai incidenti, per cui il Pensiero (e la Morale annessa) non inciderebbe davvero sulla vita di ogni giorno, poiché quasi "fine a se stesso" tanto da non saper concepire (cosa che avverte anche la Hannah più giovane ed inesperta) la semplice idea del "pensiero passionale", vitale. Dunque, sempre sul punto di porsi quesiti intorno all'utilità della riflessione filosofica, Margarethe von Trotta, con il suo Hannah Arendt, immette in un flusso di riflessione che sa perfettamente integrarsi con l'opinione che lo spettatore va via via formulando (autonomamente, benché sia un'opinione decisamente "veicolata"), e crea un personaggio profondo ma non indimenticabile (ben interpretato da Barbara Sukowa) di cui sappiamo intravedere gioie, dolori e dubbi esistenziali, nel momento in cui decide di fare di un reportage una riflessione filosofica sul concetto di Male, e nel momento in cui rivela a se stessa, e a noi, ciò in cui lei veramente ha sbagliato: "non può esistere un Male arazionale [senza pensiero] e radicale allo stesso tempo: può essere anche estremo, ma non radicale. Solo il Bene è radicale, profondo". Si oserebbe aggiungere intoccabile, lontano, indistinguibile, impossibile, incompreso, inflazionato, disumano tanto quanto il Male, irraggiungibile, alla disperata ricerca del vero.
Ci sono stati tanti massacri, nella Storia dell'Uomo, e tanti esempi di crudeltà (per dirne due, i tribunali dell'Inquisizione e i gulag): ma mai in maniera così concentrata e in maniera così sistematica un'intera ideologia ha recato con sé i desideri patriottici (e animaleschi) di un'intera nazione, sulla base di pensieri filosofici giusto di poco male interpretati, e abbia scatenato una guerra all'ultimo sangue contro l'innata e universale morale umana (quantomeno occidentale, che vede normalmente l'omicidio come una colpa) creando una legge lontana dall'esistenza (einai, in greco, la prima parola del primo articolo sul New Yorker) e che richiedeva un'adesione totale e priva di remore, tanto che nel momento in cui Eichmann dice di non aver mai avuto la volontà personale né morale di uccidere un ebreo, e di aver solo eseguito gli ordini, si finisce, a malincuore, per credergli.
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