Regia di Margarethe Von Trotta vedi scheda film
Il cinema di Margarethe Von Trotta ha sempre privilegiato il lato narrativo su quello visivo, l'impegno storico sociale alle dimostrazioni anche ardite delle meraviglie di una macchina da presa che diviene (o puo' divenire) occhio mobile e penetrante e pure mente indagatrice del regista che la plasma a suo intimo arbitrio.
Non fa eccezione questa sua ultima prova registica, ancora inedita in Italia, che torna a trattare il tema scottante mai sopito (come potrebbe d'altronde?), e difficile da essere accettato soprattutto se si è tedeschi, discendenti di coloro che presero parte o comunque non si opposero mai troppo concretamente agli eccidi del nazismo.
Hanna Arendt era una filosofa tedesca di origine ebrea che riuscì a scappare negli Usa nel 1940, quando le deportazioni cominciavano a segregare le vittime per prepararle alla fine atroce che noi tutti conosciamo. Vent'anni dopo, inizio anni '60, la donna, giornalista collaboratrice di prestigiose testate come il New Yorker, prende parte attivamente al processo in Israele di un gerarca nazista (Adolph Eichmann) scrivendo un lungo articolo intitolato, con sarcastica tenacia, "La banalità del male". Con esso la filosofa surriscalda animi e suscita ire profonde da parte di quello stesso popolo a cui appartiene e che con estrema naturalezza ha deciso di difendere testimoniando e raccogliendo memorie e materiale necessario per trovare e condannare questo e altri ufficiali assassini del regime nazista. La sua tesi sosteneva che spesso persone senza radici, senza personalità e dunque vuote e banali, si ritrovano a compiere azioni spietate ed orrori che poi attribuiscono vigliaccamente ad un sistema dal quale prendevano ordini, invece di trovare la dignità di sentirsene i responsabili. L'accusa a Eichmann, cecchino nazista si ripercosse su molta della popolazione tedesca, che si sentì accusata di connivenza e attacco' duramente la filosofa, cosi' come gli stessi ebrei dalla stessa difesi fino allo stremo.
Il film della Von Trotta poggia su una vicenda troppo scottante per non suscitare forte interesse e la prova sofferta e tenace della affezionata e storica Barbara Sukova accentua la forza d'animo di una donna grande e coraggiosa. Il film è girato, come dicevamo e come spesso accade con la regista tedesca, con una professionale impersonalità che lo assimila ad un buon prodotto televisivo, robusto e di facile narrazione, che tuttavia non rende molto onore ad una donna di cinema dalla cui fama oseremmo pretendere qualcosa di più in termini di stile e personalità, semmai ce ne fosse bisogno quando il senso civico e storico del racconto sono così forti e predominanti.
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