Regia di Pierfrancesco Diliberto vedi scheda film
La mafia non esiste. Lo dicono gli adulti, che non vogliono credere alla verità. Invece i bambini vogliono credere alle favole, soprattutto a quelle molto finte, montate dalla televisione e dai giornali. Dove i grandi non vogliono vedere il male, i piccoli riescono a vedere il bene. E a sognare il potere come qualcosa di bello, che è giustamente vincente e confina con l’amore. Giulio Andreotti, per Arturo Giammarresi, è un’autentica leggenda. Un modello da imitare, un saggio dal quale prendere consigli sulla vita: ad esempio, sul modo in cui dichiararsi a Flora, la compagna di scuola di cui si è invaghito. L’allora presidente del consiglio è, per quel ragazzino timido ed insicuro, l’eroico abitante di un paese dei balocchi, in cui buoni a cattivi vivono in pace, mangiando insieme le tipiche frittelle siciliane, gli iris alla ricotta con le scaglie di cioccolato. Gli uomini sarebbero tutti felici e contenti, se non fosse per loro, le donne, che spesso li fanno impazzire e magari li fanno finire ammazzati. L’infanzia del protagonista, nella Palermo degli anni settanta ed ottanta, si svolge in mezzo a sanguinosi drammi circondati da un’aura di fascinoso mistero, che in parte mette paura, ma che, soprattutto, alimenta la fantasia. L’immaginazione vola via dall’orrore, per posarsi un po’ più in là, dove i proiettili che hanno ucciso il commissario Boris Giuliano in una pasticceria sono solo palline metalliche che si sono aggiunte alla farcitura di quei famosi dolcetti. Pierferdinando Diliberto – in arte Pif – ripercorre la fiaba di una graduale presa di coscienza: un processo che ha accompagnato la sua crescita, e che, in parallelo, ha interessato l’intera società siciliana. Dalla negazione all’aperta rivolta passano due decenni, un periodo che inizia con la guerra tra clan scatenata da Totò Riina, prosegue con il maxiprocesso ai capi di Cosa Nostra, e culmina con gli attentati a Falcone e Borsellino, e la sollevazione popolare che ha accompagnato i loro funerali. Gli eventi hanno cambiato il volto dei miti, che si sono trasformati anche per Arturo, il quale, col tempo, è divenuto sempre più disinibito, e sempre più ribelle alle bugie altrui. La sua illusione si è progressivamente convertita in un realismo non meno romantico, però incentrato su incanto più maturo ed importante, che è la passione per la legalità, la giustizia, la libertà. Con questo film l’autore rivolge un commosso e divertito omaggio all’ingenuità di chi si fa ingannare di buon grado, per poter partecipare ad un gioco che gli sembra innocente, e che non sempre è facile, però gli piace, perché gli propone sfide emozionanti – come quella contro Fofò, l’altro pretendente di Flora – e mette in palio premi molto allettanti. Esiste una naïveté limpida, che illumina il mondo, compresi i suoi risvolti terribili, con la luce della semplicità: è il cuore disegnato col gessetto rosa sul marciapiede su cui, poche ore dopo, il giudice Rocco Chinnici salterà in aria. E ce n’è un’altra, torbida e colpevole, che, per pura vigliaccheria, impone ad ognuno il silenzio, la cecità, l’oblio, anche di fronte alla più cruda evidenza. La mafia uccide solo d’estate è la rievocazione di un’epoca in cui ci si impediva di ricordare. Ed è, in forma provocatoria e scanzonata, eppure sinceramente sofferta, l’espressione di un monito che, raccontando un capitolo nero della nostra storia recente, scuote teneramente il cuore.
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