Regia di Pierfrancesco Diliberto vedi scheda film
Il palermitano P.Diliberto colma una falla della storia lunga trent’anni, ritornando ( rinnovandolo) al cinema di denuncia, a quello d’impegno civile che lontano dagli antichi fasti quasi nessuno ha più preso in considerazione. Il periodo storico interessato è quello che parte dagli anni settanta a Palermo dove la vita del protagonista, Arturo, interpretato dallo stesso Diliberto si affianca ai più importanti fatti di cronaca riguardanti la lotta alla mafia. L’azione meritoria del regista, non è tanto quella di documentare quegli episodi determinanti per il nostro paese, che sono stati in vario modo esaminati e messi sotto la lente d’ingrandimento dal giornalismo e dalla giustizia, ma di collocare con lucidità la dimensione reale dei fatti che va nettamente separata e spogliata dalla fiction con la quale è stata sommariamente riproposta dai media dell’immagine nel corso degli anni, costruendo e distorcendo verità parziali, negoziabili, secondo le regole e i meccanismi comunicativi della finzione pura, la quale diventa funzionale solo a sé stessa, occultando e spostando l’attenzione su qualcosa che non è più possibile che sia solo vera ma che si è ridotta a mera invenzione dunque accettabile, anzi, digeribile per la memoria collettiva. La fiction può ridursi alla quotidianità delle singole persone, più illuse che colluse con il fenomeno mafioso, e la semplice storia sentimental- biografica di Arturo ne è la legittima dimostrazione, ma la realtà storica dei fatti è un’altra, composta da nomi, cognomi e avvenimenti che devono trasformarsi in memoria. Il film non scava a fondo nell’intreccio fra tessuto sociale e sottocultura mafiosa, per questo l’autore si dedica anima e corpo nella sua veste giornalistica attraverso un significativo lavoro di inchiesta su canali televisivi on demand e in rete che lo ospitano con i documentari della serie Il testimone e che hanno connotato la sua persona di serietà e credibilità. Eppure il film non tradisce la sua anima individuale, umana, profonda, fatta di ricordi e semplici osservazioni. Dopo i primi 20 minuti che contengono alcune caratterizzazioni che possono strappare un po’ bonariamente qualche risata, emergono solo più i fatti nella loro crudezza, credo che come per me parecchie persone che hanno assistito alla visione si siano trovate con un groppo doloroso nella gola che non si può sciogliere al termine della proiezione. Nel riproporre gli eventi nei quali con le tecniche di ripresa e le possibilità del digitale, si possono fondere immagini nuove con quelle di allora creando un effetto di assoluta compenetrazione, il regista tende ancora di più a sottolineare quel clima fasullo di autoinganno, di confusione, di abominio del reale. Ci si è permesso per troppo tempo di credere che questa parte della storia non appartenesse a tutti ma solo ai diretti interessati, mentre ci si illudeva fra commissariati esotici e “simpatiche” imitazioni dei politici collusi( ricevibili a secondo del proprio gusto come oscenità o gustose variabili della scena tv) che qualcuno potesse anche sostenere che la mafia non esiste, ma che quella materia doveva essere compresa e manipolabile solo in spazi artificiosi come i siparietti tv. Del potere della mafia ne poteva, e ne può “religiosamente” parlare solo una ristretta cerchia di specialisti, che guarda caso il tempo mette a nudo, servisse un po’ di coscienza e di conoscenza, almeno Diliberto ci prova genuinamente a puntare il dito. Premio meritato del pubblico al Torino Film Festival, e speriamo non solo per mettersi l’animo in pace.
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