Regia di François Ozon vedi scheda film
Probabilmente questo è finora l'esito migliore della ricerca ozoniana sulla struttura del testo filmico. Tanti suoi film vertono su questa consapevolezza, divertita e insieme dolente, della falsità del meccanismo rappresentativo scaturito dal congegno-cinema. "Nella casa" è un film-in-progress, un mind-game movie d'autore dove ciò che lo spettatore vede (e che fa progredire la suspense e l'interesse morboso per la vicenda e per i personaggi) è frutto di un germoglio in corso d'opera. Il flusso di immagini, non si sa quanto reali o immaginarie (poco importa), scaturisce dalle parole diegetiche di un narratore che coincide col giovane studente Claude (o forse, meglio, con l'immagine idealizzata che il professor Germain, forse omosessuale represso, si è fatto del suo talentuoso ed irriverente pupillo). E' un gioco vertiginoso di ipotesi, riflessi, focalizzazioni miste, intricati rimpalli etici: un turpe divertissement in cui l'ultima cosa che conta è il punto d'arrivo, la soluzione dell'inghippo, lo scioglimento, il fine (lieto o funesto che sia). E' il percorso che conta, il racconto in sè, il piacere e il rischio dell'affabulazione. Si tratta indubbiamente di uno dei più riusciti studi sul binomio cinema-letteratura, sul modo in cui interagiscono i due diversi linguaggi dell'immagine e della parola. In tanti ci hanno provato, anche con esiti notevoli, fin dai tempi della nouvelle vague (che resta anche qui, assieme a Sir Alfred, il nume tutelare della poetica di Ozon, per quanto contaminata con tanto altro), ma forse nessuno ha mai avuto la leggerezza di Ozon. Siamo lontani dall'esercizio sterile, dal sollazzo intellettuale, dall'esibizione meta-testuale: Ozon è sempre e comunque trascinante, appassionante. Oserei dire anche che persino i vari Resnais o De Oliveira, qui, siano stati battuti sul loro stesso terreno. Ciò che rende "Nella casa" vivo e pulsante è il fatto, davvero perverso, che la creazione artistica avvenga per mezzo di (e a spese di) persone in carne ed ossa. La famiglia dei Rapha e della avvenente Esther, prima spiata nelle proprie faccende private e poi quasi distrutta dalle melliflue azioni del "narratore", è la materia prima con cui Claude costruisce il suo romanzo di formazione (che in partenza doveva solo essere una satira della borghesia o al limite un racconto naturalista, del tutto privo di dialettica e di conflitti). Claude è un opportunista, un manipolatore, un cinico, un personaggio di lucida e spietata meschinità: non è interessato all'amicizia e forse, in fondo, nemmeno all'avventura sessuale. E' un "cheater", un impostore, un attore: il suo unico fine è crearsi un personaggio, anche a costo di affossare gli altri. La famiglia di Rapha viene volentieri, senza rimorso, sacrificata al sacro fuoco dell'Arte, del Romanzo, dell'Immagine, della creazione artistica, diretta espressione dell'Ego dell'autore. Della vita di Claude sappiamo poco: è come un angelo del male, un deus-ex-machina che fa il bello e il cattivo tempo, proiezione fisica ed intellettuale dei desideri del professore, non a caso scrittore frustrato. Nel film ricorrono dialoghi ed altre situazioni meta-testuali, in cui spesso lo sfondo è neutro (un muro bianco o azzurro), quasi a sottolineare la dimensione astratta in cui il film "si fa" progressivamente. Un'altra trovata apparentemente futile, in realtà poeticamente centrata, sono le digressioni sulla galleria di arte contemporanea gestita dalla moglie del professore. La componente kitsch e "disumana" (bambole gonfiabili con la faccia di Stalin, svastiche a forma di pene, orologi con 13 ore, istantanee seriali di cieli nuvolosi e così via) dell'arte dei nostri giorni contrasta efficacemente con il calore umano, la carne, le pulsioni incontrollabili ed inclassificabili degli esseri umani che compongono il "cast" del cine-racconto di Claude. Con notevole eleganza e finezza, Ozon lancia segnali ambigui e contraddittori in merito alla "morale" dell'arte e ai suoi pericolosi incroci con la realtà (ammesso che esista una realtà): da una parte, si riafferma l'Uomo come fulcro poetico e sentimentale, dall'altra però si evidenzia come questo stesso Uomo, nelle mani dell'artista, diventi puro materiale da gestire, pedina da spostare a piacimento, fino allo scacco matto. Lo scrittore è colui che vivifica, anche se illusoriamente (la frustrazione sessuale di Esther, il desiderio di compagnia di Rapha, quello di una nuova paternità di Rapha senior), colui che scuote la Famiglia da una noiosa "perfezione", ma anche colui che distrugge ed umilia. Il film vanta momenti di assoluta grazia e un umorismo a tratti irresistibile (quasi alleniano il professor Fabrice Luchini, del tutto in parte; ma in generale tutto il cast è ottimo, con menzione speciale per una Seigner ancora al top della desiderabilità). E' un peccato però che quello che avrebbe potuto essere un capolavoro assoluto manchi ancora di quel guizzo di genialità nell'ultima parte (perchè per due terzi è pressochè impeccabile) che lo rende in parte irrisolto: troppo pretestuosi gli abbozzi sulle condizioni di vita di Claude (la madre scappata, il padre infermo etc...sarebbe stato opportuno tagliare la scena del risveglio del padre, per rendere il personaggio di Claude ancora più "teorico"), troppo telefonate alcune sequenze (l'aftermath del finto suicido di Rapha), troppo frettolosa la svolta finale "nella casa" di Germain (con la probabile seduzione a sua moglie, che improvvisamente ottiene la ribalta). Insomma, in tanta verve creativa, anche Ozon pare avere perso un po' di vista il rispetto per l'Uomo e per i suoi drammi, un po' come Claude: pare quindi che Ozon sia complice del cattivo Claude. Non a caso, quest'ultimo è il vincitore indiscusso del film, a fronte del povero professore finito sul lastrico e solo. Come a dire: inutile aver fiducia nelle persone, nei sentimenti, nell'onestà, poichè le uniche soddisfazioni si ritrovano nell'Arte, ossia nella manipolazione, nell'imbroglio. Film amaro e sarcastico, chiuso da una splendida inquadratura fra il Rear Window hitchcockiano e il Playtime del connazionale Tati, "Nella casa" resta, al di là di qualche appannamento e dell'ambiguità morale, un'opera fondamentale per comprendere lo stato delle cose in un'era, come la nostra, dove l'egocentrismo dilagante fa si che ciò che è immaginario e virtuale sia percepito come più importante di ciò che è reale.
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