Regia di François Ozon vedi scheda film
Impossibile osservare senza modificare il soggetto osservato. Guardare attraverso il buco della serratura è come azionare la chiave, per aprire la porta e diventare un intruso, la cui presenza curiosa si amalgama con la vita altrui, trasformandola. La casa è l’habitat del personaggio, è la sua intimità da spiare e restituire al mondo sotto forma di opera d’arte. La traduzione creativa di una storia non è mai letterale. È sempre una fantasia che fiorisce sulla realtà fino a stravolgerne la base, con l’impetuosa crescita delle sue radici. Il giovane Claude Garcia è una pianta ribelle che si innesta nell’esistenza del suo compagno di liceo Rapha Artole, facendosi invitare nella sua abitazione col pretesto di aiutarlo con i compiti di matematica. Entrare tra quelle pareti è il primo passo di un racconto che mette in discussione le consuetudini di un ordinario ménage familiare semplicemente descrivendolo, ripensandolo, facendolo oggetto di attenzione e giudizio. Assegnare una qualità al dato reale, applicare aggettivi ai nomi delle cose e ai gesti delle persone significa onorarli di un punto di vista che potrebbe essere variato, arricchendoli così di nuove, inattese sfaccettature. Il segreto di un romanzo di successo risiede nella capacità dell’autore di inserire elementi di tensione, incertezze che derivano proprio dalla relativizzazione dell’immagine, dalla sua collocazione in una dimensione indistinta e soggettiva che, da un momento all’altro, potrebbe essere completamente chiarita oppure del tutto ribaltata. Germain, il professore di francese di Claude, lo invita a coltivare il suo talento letterario facendo delle sue esperienze a casa di Rapha i punti di partenza di un’avventura che non si appiattisce banalmente sul piano degli avvenimenti, perché è costantemente alimentata da paure, speranze, da desideri. Ciò che potrebbe essere deve proporsi come la forza in grado di condizionare il corso degli eventi, mettendone anzitutto in luce la precarietà, la posizione instabile sul sottile crinale che separa una possibilità dal suo contrario. È così che dal solito tema scolastico, in cui si chiede di raccontare l’ultimo fine settimana, scaturisce un percorso lungo il quale verità e sogno, percezione ed illusione si fondono nella ricerca del miglior modo di sfuggire all’onnipresente insidia dell’ovvietà. François Ozon trae dalla pièce “El chico de la última fila” del noto drammaturgo spagnolo Juan Mayorga un film incentrato sulla sperimentazione degli effetti della parola scritta sulle situazioni che essa cerca di rappresentare in maniera non obiettiva, strettamente individuale, con sfumature filosofiche e coloriture emotive. La convenzionalità si propone come il terreno vergine sul quale cominciare ad incidere i primi solchi di riflessione, di critica, di satira: le tracce visibili di una parodia demolitrice dell’apparenza, tramite la quale il normale si scopre, improvvisamente, un potenziale concentrato di imbarazzanti diversità. Nel momento in cui Claude inizia a scrivere su Rapha, su suo padre e su sua madre, tre classici ed anonimi esponenti della cosiddetta classe media prendono le sembianze di bestie rare, di esemplari eccezionalmente ridicoli e patetici, affetti da debolezze e manie, portati alla tristezza, alla rabbia, alla voglia di mollare tutto e ripartire da zero. Sotto la pubblica facciata della tranquillità e dell’armonia, si nascondono creature che sfogano le loro insicurezze quando sono chiuse nella loro dorata gabbia di infelicità, nella quale riversano le loro quotidiane frustrazioni. Claude vuole far leva su queste per intrufolarsi nelle loro segrete utopie, quelle che sporadicamente emergono dai silenzi o dai discorsi sfuggiti al controllo. Quel ragazzo è un esploratore dei pensieri proibiti, che egli, con carta e penna, converte in intriganti piani d’azione. Dans la maison è il resoconto ragionato di un progetto di indagine, della sua ideazione, del suo sviluppo, della sua esecuzione sul campo: un testo che, per quanto sapientemente elaborato ed efficacemente messo in scena, risulta forse complessivamente troppo ancorato agli schematismi dialettici, al gioco delle ipotesi, al senso del contrario. La struttura dialogica del teatro imprigiona l’anima del cinema, mettendola al servizio di una digressione astratta e tecnica intorno all’arte del narrare. E così un film che vorrebbe parlarci del saper guardare finisce per frenare le suggestioni dinamiche e visive, chiedendo, anzitutto, di essere ascoltato.
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