Regia di Lasse Hallström vedi scheda film
Più convenzionale che mai. Stupisce che la Svezia non trovi nulla di meglio, da presentare agli Academy Awards 2013, che questo giallo fiacco e privo di sorprese. Una pellicola che si direbbe girata senza entusiasmo, e che pure, curiosamente, tenta di essere audace rivisitando l’intimismo enigmatico e claustrofobico di Ingmar Bergman dall’azzardata prospettiva dell’horror di quart’ordine. Sembrerebbe impossibile riuscire a proporre una storia come questa - collocata nel punto d’incontro tra il cannibalismo familiare alla Festen e il thriller psicotico alla Shining - abolendo suspense e follia. In realtà basta che la regia infonda, nella figura del protagonista, un’appropriata dose di anonimato e svogliatezza, perché l’effetto desiderato si produca in maniera istantanea e duratura. A completare l’opera interviene quindi una pigrizia descrittiva che realizza la propria discutibile concezione dell’essenzialità eliminando tutte le sfumature visionarie che danno colore al racconto. La trama resta spoglia, appiccicata a forza sullo sfondo di una Stoccolma fumosa e innevata che pare un paesaggio lontano e forse posticcio, troppo distante per proiettare sulla scena la sua nordica ombra di universale ed immota tragicità. Il film ci toglie il gusto di immaginare e rabbrividire, lasciando che gli eventi parlino il linguaggio scarno e diretto dell’evidenza, senza nulla concedere alle benefiche suggestioni di ciò che è superfluo, stonato o fuorviante. Di fronte a una vicenda in cui tutto appare troppo facile, fantasia e ragione si spengono, nell’attesa che la prevedibilità segua il suo corso. Nemmeno l’ipnosi serve a trasportarci nel mondo dei sogni. Restiamo svegli, indifferenti e tranquillamente annoiati, certi che là fuori, al di là delle pareti del visibile, non vi sia nulla da scoprire, e nessuno di cui avere paura. E dire che il romanzo di Lars Kepler – pseudonimo della coppia di scrittori formata dai coniugi Alexander e Alexandra Ahndoril - ce la mette tutta per cercare di ravvivare lo squallore con qualche spunto pittoresco: “… l’ultima trovata di Benny è un poster con la pubblicità della compagnia aerea SAS: una ragazza in minibikini, esotica quanto basta, che beve dalla cannuccia un cocktail alla frutta. Quando avevano proibito di esporre in ufficio calendari con ragazze seminude, Benny si era così infuriato che la maggior parte dei colleghi aveva pensato che si sarebbe licenziato. Invece da molti anni si dedica ad una silenziosa e ostinata protesta. Il primo di ogni mese cambia la foto alla parete.” (da L’ipnotista, traduzione di A. Bassini).
Purtroppo il film di Lasse Hallström sorvola, sdegnosamente, su questi fronzoli un po’ ingenui, eppure tanto salutari, per consegnarci l’impassibile sintesi di un’indagine che quasi non conosce errori né incertezze, si perde appena un po’ in stereotipate traversie sentimentali, e finisce col consueto spettacolare addio che, dopo i rituali attimi di trepidazione, restituisce la pace ai morti e ai vivi. A onor del vero, il drammatico finale, sia pur affetto dai cliché del catastrofismo hollywoodiano, tecnicamente non è poi così ingrato: un estremo colpo di vitalità che ci conforta, all’ultimo minuto, dall’amarezza di non potere aver di più.
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