Regia di Dustin Hoffman vedi scheda film
Nelle ultime stagioni si sta affermando sempre di più un genere cinematografico trasversale che potremmo definire âgé, dedicato alla rappresentazione di personaggi per troppo tempo relegati a ruoli di nonni o rimbambiti e rivolto ad un pubblico principalmente anziano ma non solo. La bellezza di Quartet, ultimo esemplare di questa tendenza del cinema contemporaneo che riscopre il valore della vecchiaia, non sta tanto nella tecnica o nella struttura: sta nella sua sublime capacità di trasferire emozioni rare e preziose a spettatori poco abituati a percepire certi tremori senili, certe palpitazioni pseudo infantili, certe ineluttabili malinconie crepuscolari. Al di là di tutto, Quartet è un film che trova la quadra nell’accarezzare il pubblico all’esercizio della gioia, evitando la semplice ruffianeria in favore di una più consapevole (ma non per questo triste) coscienza della fine imminente. Il fantasma della morte è assolutamente presente, sia come annuncio che come certezza, ma non si può pensare troppo alla morte dal momento che c’è ancora un giorno, un’ora da vivere. La storia è minima (l’organizzazione di uno spettacolo atto a raccogliere fondi per il sostentamento di una casa di riposo per artisti lirici), a contare sono i personaggi d’altri tempi, i volti colti sul viale del tramonto, i corpi decadenti ma ancora fieri, come ben si addice a gente che ha fatto dell’espressività e del movimento una ragione di vita. È un discorso sull’opera e sul suo mistero (da una pièce di Ronald Harwood), su uomini e donne che hanno vissuto analogamente ai caratteri che portavano sul palcoscenico: nell’opera un accoltellamento non genera sangue, ma canto, quindi vita, e l’opera è di conseguenza l’espressione più alta dell’esigenza di dare voce alla vita. Alla fine della fiera, Quartet si rivela uno di quei rari film di cui è impossibile parlar male nonostante i (non molti) difetti saltino all’occhio dello spettatore più attento (qualche passaggio meccanico, una sovrabbondanza di figurine sullo sfondo non sempre riconoscibili, la sua aria un po’ stantia da film da pomeriggio piovoso d’inverno) e il merito non è tanto di Dustin Hoffman, regista esordiente alla tenera età di settantacinque anni (appunto) che gioca sul sicuro, facendo ciò che prima di lui hanno fatto molti lodati attori alla prima esperienza dietro la macchina da presa: si affida proprio agli attori. E quando hai un mazzo di interpreti del genere non puoi che affidarti a loro: grandiosa Maggie Smith, immenso Tom Courtenay, straordinario Billy Connolly, meravigliosa Pauline Collins, spassoso Michael Gambon, e uno stuolo di soprani, tenori, musicisti, direttori d’orchestra da applausi.
Voto: 7,5.
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