Regia di John Krokidas vedi scheda film
Nell’America dei libri proibiti e del rigore morale arriva il tuono dissacratore e innovativo della beat generation. E questa è storia. O meglio, questa è una storia. Tutt’altra storia è infatti il film di John Krokidas che fa dello sberleffo ribelle, del rifiuto della vita comune e del disprezzo delle consuetudini borghesi un crogiolo di luoghi comuni e nemmeno trattati con la sensibilità che conviene.
La vita boema in cui vengono aspirati i giovani Ginsberg, Kerouac, Carr e Burroughs sa di posticcio fin dall’inizio, tanto sono reiterati i gesti anticonvenzionali, le frasi fatte, il linguaggio barocco e arzigogolato con cui i ragazzi cercano di differenziarsi dalla massa e soprattutto l’affettazione dei personaggi, tromboni impazziti. Daniel Radcliffe fuori parte viene regolarmente divorato dall’inquietante Dane DeHaan, già di suo poco conciliante a causa di due occhi gelidi e di un viso sì spigoloso che lo rendono perfetto ed inarrivabile, che aveva già dato buona prova di sé in Chronicle (2012) e che qui, a parte qualche leggero scivolone in cui ha confuso intensità con pathos, riesce in una performance schizofrenica in bilico tra istrionismo e contenutezza realista del gesto e del testo attoriale, ovvero il corpo. Dane DeHaan è un po' come se Leonardo DiCaprio avesse pestato il grugno contro quello di Jack Nicholson - ed esiste in rete un'intervista all'attore del Grande Gatsby che conferma la possibilità di mutazione in Nicholson: http://video.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/di-caprio-show-in-tv-imita-jack-nicholson/121621/120108.
Un film che parla della beat generation, dopo che già molti titoli sono stati snocciolati a proposito, non può semplicemente raccontare un fatto di cronaca, utilizzare le pruderie sessuali dei personaggi, il pettegolezzo e l’ostentata e banalizzata ribellione sociale senza colpire l’immaginario attraverso la forma e il linguaggio. Basta prendere Urlo (2010) per capire cosa manca a Kill Your Darlings.
In un film che parla di antiborghesia e promiscuità sessuale, il tutto intrecciato alla voglia di rinnovamento e al desiderio di uccidere e distruggere tutto il precedente per rinascere e ricostruire una “nuova visione” dell’arte e quindi anche del mondo e dell’uomo, in un film con cotanto obiettivo non si può prescindere dalla forma e dal linguaggio che qui non solo sono classici, bensì banali e castrati, come castrate sono le scene di sesso che vorrebbero raccontare la centralità del desiderio e dell’esperienza sessuale come motore della vicenda.
Se volessimo mettere da parte la sgradevole verità per la quale è facilissimo giocare ai ribelli e andare contro il sistema quando si è ricchi e tutelati, il film non turba in nessun altro caso. Non riesce a invischiarsi nel nostro pacato tessuto dormiente e non ci scuote come ancora oggi sanno fare le opere dei signori di cui narra le gesta. Riesce invece ad annichilirci, a persuaderci solamente che stiamo assistendo a una bella storia grazie al personaggio di Lucien Carr e al suo interprete, ma nulla di più.
Sempre se non facciamo caso all’appartenenza borghese dei personaggi, in netto contrasto con la loro voglia di emancipazione e trasgressione. Questo aspetto, forse non voluto dalla produzione e dal regista, è l’unico che a mio avviso inquieta il pubblico spettatore, convinto che essere ribelli sia tutta un’altra cosa. Ma questa è un’altra storia, e la realtà della beat generation può esser raccontata con meno sensazionalismo, facendo così un gran favore ai suoi paladini.
PS: fa piacere ritrovare, a sorpresa, anche se in ruolo a lui poco consono un mito della mia infanzia come David "Troppo Forte" Rasche.
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