Regia di Sophie Lellouche vedi scheda film
E dire che Woody Allen si è prestato ad apparire di persona in questo film. Sophie Lellouche si sforza di omaggiare la cinematografia di un grande regista (e probabile suo idolo) con uno slancio passionale non sostenuto dalla necessaria forza espressiva. La sua voglia di fare si perde in un mare di contraddittorie ambizioni, con una sceneggiatura informe che pretende l’impossibile: trattare la vita per quello che è, e far credere alle favole d’amore, presentarsi come ingenua e sfoderare originali arguzie, coltivare lo scetticismo e chiudersi su un dorato happy ending. Alice Ovitz, giovane farmacista ebrea e nubile, non è la versione femminile del protagonista di Manhattan. Ed il suo ostentato distacco nei confronti del caotico quadro familiare circostante non basta a renderla quell’eroina intellettuale ed antiborghese che vorrebbe essere. Il suo filosofeggiare si esaurisce nei dialoghi che intraprende col poster di Woody Allen appeso alla parete della sua stanza, e il cui tenore non supera quello di un’allucinazione adolescenziale. Le cure a base di dvd, che Alice propone ai suoi clienti affetti da nevrosi, fanno parte della stessa superficiale venerazione, rivolta ad un’arte a cui attribuisce poteri taumaturgici senza veramente essere in grado di capirla. A cosa serve quel suo girovagare per Parigi, rincorrendo le ombre di sospetti ed i barlumi di speranze? La sua vita sentimentale (ed il suo rapporto con quella altrui) è un problema privo di profondità, basato su un’insicurezza mascherata da un pregiudiziale atteggiamento di rifiuto (per altro non coerentemente perseguito). La sua incostanza non ha nulla di creativo, ed i suoi pensieri rimangono ancorati agli ottusi capisaldi di un’eccentricità che si proclama orgogliosamente autonoma ed alternativa, mentre, di nascosto, ficca il naso negli affari altrui alla ricerca di certezze. Nei confronti della sorella, non si sa bene se si consideri sua complice o sua nemica, e allo stesso modo non ci è dato di capire se il suo personale desiderio sia affermare la propria indipendenza, o incontrare l’uomo giusto, che la riscatti dalla solitudine, o ancora, banalmente, procurarsi un marito che le assicuri la stabilità auspicata dai suoi genitori. Il tema del matrimonio sembra occupare una posizione centrale nel discorso, ma il film si dimentica di svilupparne sia gli aspetti romantici, sia quelli critici: in vari punti si parla di tradimenti, di incomprensioni con i figli, di alcolismo, di divorzio, di perversioni, di tradizioni, di felicità, ma senza inserire questi elementi in un contesto ragionato, che consenta di conferire alla storia il sapore di un’ipotesi da esaminare, o anche solo di un’avventura consapevolmente vissuta. La storia ondeggia e zoppica, indecisa sul tono da darsi mentre, sulle note di Cole Porter, sfila da neofita davanti ad una schiera di citazioni autorevoli (di fronte alle quali non ha nulla di particolare da dire, come a proposito della scena con Gene Wilder e la pecora Daisy, tratta da Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso …). La regista Sophie Lellouche imbastisce il suo rimo lungometraggio su un canovaccio grezzo, su cui ricama spunti che non sa elaborare in maniera interessante (vedi la vicenda di Victor e del suo antifurto al cloroformio, o di Achille, il misterioso ragazzo di sua nipote). La composizione è piena di freschezza e sincerità, ma l’ispirazione è debole, tanto che – contrariamente a quanto spesso accade, in questi casi - non riesce a strapparci nemmeno un bonario sorriso di tenerezza.
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