Regia di Alain Resnais vedi scheda film
Avvenente ed algida signora della buona borghesia tedesca,in vacanza estiva in uno sfarzoso e barocco hotel bavarese in compagnia del marito intraprende,insieme ad un aitante ed insistente spasimante, un lungo 'tour de force' della memoria nel rivocare gli accadimenti dell'anno precedente e nello stesso luogo, in cui lui sostiene di averla conosciuta e sedotta e che lei invece nega con pervicace ed ostinata determinazione. Chi dei due avrà ragione?
Sullo spunto di un soggetto non originale (il romanzo 'L'invenzione di Morel' dello scrittore argentino Adolfo Bioy Casares) lo sceneggiatore prediletto di Resnais costruisce una originalissima partitura cinematografica che risuona (sin dagli echi ipnotici del monologo iniziale) come una ridondante litania che ci addentra nei recessi insondabili di un austera magione bavarese come all'interno di un interminabile e indefinito processo di conoscenza, lungo le ingannevoli scorciatoie di una memoria mutevole e infingarda che sembra restituirci ad ogni angolo, lungo ogni corridoio, in ogni salone decorato 'a fregi e colonne', il senso di una fantasmatica presenza, minacciosa e oscura, quale lo spettro di una paradossale ed inaccettabile verità.
Proprio la destrutturazione del racconto di Alain Robbe-Grillet segna lo scarto insanabile nel flusso di coscieza sospeso tra paura e desiderio, cristallizza la memoria entro i rigidi confini di uno spazio apparentemente chiuso, austero, sfarzosamente barocco; l'ingannevole scenografia di un labirintico ginepraio (la gabbia di una inafferrabile memoria), la messa in scena tra finzione e verità in cui si materializza un ricordo irrisolto quale contraddizione statica tra il desiderio di protezione dell'uomo e lo slancio in avanti della donna che campeggia enigmatica e sibillina come l'incerta scena di caccia di due amanti in fuga. Più che una facile metafora sul gioco di specchi tra finzione teatrale e rappresentazione del reale (che alla fine del prologo ed all'inizio dell'epilogo sembrano trovare una misteriosa e sibillina consonanza: l'aleggiare sospeso e minaccioso della vendetta fedifraga di un tragico 'menage a trois') è nel tempo del racconto meta-cinematografico che si misura la dimensione della struttura narrativa, quale ardita rappresentazione scenografica del plausibile o del possibile, lungo gli infiniti snodi di un insondabile processo di conoscenza laddove si confondono realtà e desiderio, verità e finzione, ieri e oggi (L'anno scorso? E dove? A Marienbad?).
Il capzioso disallineamento tra dialoghi e scene nell'eterno ritorno di una memoria frammmentata, scissa , disorientata e che pure recupera con una pervicacia estenuante gli echi di una verità ridondante (il bicchiere che cade, il tacco che si rompe, la fuga d'amore).
Divertissement raffinato e sfrontato esperimento cinematografico coglie i personaggi nelle pose semistatiche di una dimensione sospesa e dove brillano, come diafane divinità immanenti, i volti interdetti dei giovani amanti: lo sguardo ribelle di un giovane e aitante Giorgio Albertazzi e la languida e assente condiscendenza di una indifesa Delphine Seyrig. Leone d'oro a Venezia 1961, a dieci anni esatti dall'exploit lagunare del 'Rashomon' di Kurosawa: un'altro, formidabile saggio sulla ingannevole verità della memoria.
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