Regia di Jean Renoir vedi scheda film
Un film muto, eppure musicale. Dominato dai movimenti di un celebre ballo degli Anni Venti e dalla sua grazia irriverente e indiavolata: un ritmico spettacolo di saltelli e passettini, portato acrobaticamente sullo schermo, per Jean Renoir, dalla moglie e musa Catherine Hessling. Quella ballerina che si esprime solo con il dinamismo del suo corpo - tecnicamente complesso ma dall’estetica morbida ed avvolgente - interpreta, in questo cortometraggio a sfondo fantascientifico, un ruolo misto tra l’ultima donna della Terra e l’indigena dell’isola misteriosa. È il personaggio cardine di un mondo rovesciato, in cui un esploratore, nell’anno 2028, parte dall’Africa equatoriale, a bordo di una futuristica sfera metallica volante, per andare alla scoperta dell’Europa: una terra deserta e incognita, in quanto devastata da una guerra appena conclusasi (quella che nel 1927, ci si poteva ancora illudere fosse la prossima guerra). L’incontro tra l’uomo e la giovane, che gli insegnerà a ballare, è un allegro siparietto di seduzione, cosparso di spunti comici, che rimanda metaforicamente alla speranza di rinascita: un rifiorire della civiltà attraverso il linguaggio universale dell’arte, che è manifestazione spontanea dell’essere, e non necessita di intermediazioni culturali. Intanto, sullo sfondo della scena compare un goffo scimmione antropomorfo a ricordarci che la nostra primitività è l’aspetto umano di cui più facilmente si può ridere. Infatti è l’origine a cui si riconducono tutte le nostre bizzarrie, compresa la passione per certe pratiche che sembrano volersi far beffe del progresso riportandoci indietro di millenni: il charleston è preso bonariamente in giro come il ballo dei bianchi aborigeni, che finirà per approdare anche nel continente nero. Nei venti minuti di questo filmato, un’epoca prova a guardarsi, con ironia, dal di fuori, mettendo in dubbio la propria modernità di stampo occidentale: a tal fine i pregiudizi razziali sono provocatoriamente invertiti (e con ciò, a dire il vero, implicitamente ribaditi). Questa favola beffarda, nata al grido di i selvaggi siamo noi (perché ci autodistruggiamo con le armi o ci copriamo di ridicolo con le nostre mode), al di sotto del suo spirito goliardico, riesce a striarsi di tenero romanticismo: una vena di gustosa ingenuità si fa strada fra le pieghe della satira, e ci fa pensare, con nostalgia, a quando bastava un pizzico di pepe, unito a un po’ di zucchero, per farci sorridere e riflettere.
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