Regia di Francesca Muci vedi scheda film
Più che imperfetto, superficiale e pasticcione. Un impulso indefinito e coltivato con poca convinzione, che spara a caso, secondo il poco fantasioso estro del momento. È l’amore descritto da Francesca Muci nel suo libro e nell’omonimo film, girato in una Bari senz’anima fatta di lungomare, palme e caffè all’aperto. La protagonista, una Elena di omerica memoria, appare impegnata in un inconcludente vagabondaggio antologico attraverso le varie accezioni del rapporto occasionale e dell’avventura sentimentale. Un trattato enciclopedico che propone tutte le possibili combinazioni, in termini di età, sesso, nazionalità. E le descrive con lo stesso insipido distacco, solo a tratti mascherato da improvvise ed artificiose impennate degne del più stucchevole dei melodrammi. L’accostamento allo stile romanzesco è però fortemente messo in discussione dalla mancanza di carattere della presunta eroina, che, mentre gira come una banderuola tra amanti ed amici, sembra incapace di cercare, e così, di volta in volta, non fa che prendere quello che trova. Elena è una falsa sperimentatrice, poiché è fondamentalmente una figura amorfa in balia del caso, che utilizza un po’ vigliaccamente come sostituto di una volontà di cui pare totalmente priva. Trarre conclusioni filosofiche dalle caotiche improvvisazioni di questo personaggio è un intento alquanto pretestuoso: nulla di ciò che ci viene propinato come moralmente condannabile ma umanamente comprensibile sembra infatti poter aspirare all’universalità sottintesa nel tono sentenzioso del titolo dell’opera. Forse è vero che le cronache attuali, impastate di sensazionalismi da reality e provocazioni da instant messaging, suggeriscono un realismo sconnesso, uno spezzatino di estemporaneità che traduce la difficoltà del vivere in un colossale rompicapo con mille pezzi sparsi ai quattro venti. Ma la crisi non si può affrontare assecondandone l’oscura e brutale incoerenza; lo smarrimento è una condizione che si può accettare, ma senza con ciò abbandonarsi allo stupido piacere di rigirarsi nel suo pantano. Questo racconto, invece, sembra proprio nutrirsi del disordinato dolore prodotto da un malinteso senso della libertà: quello secondo il quale ogni ipotetica possibilità si può, un po’ per gioco, tramutare in un’opportunità da cogliere al volo. Il punto è, però, che la frivolezza, per sua natura, non si presta ad essere presa sul serio, a spogliarsi della sua scherzosa levità per entrare a far parte delle tragedie esistenziali. È un trastullo il quale, per essere utilmente praticato, necessita di un solido apparato di coscienziosa autoironia e di costruttiva saggezza. Non è un passatempo per semplici anime perse, e, soprattutto, mal si concilia con il loro spiccato complesso di inadeguatezza. Tale è l’equivoco di fondo su cui questo film miseramente scivola fin dalle premesse, lasciandosi travolgere da uno zoppicante vortice di situazioni che si direbbero concepite da una mente acerba, e tuttavia messe in scena con velleità documentaristiche. È evidente la pretesa di fornire un ritratto sincero e coraggioso di una donna moderna e libera, ma infinitamente sola. Un quadro che, in realtà, si ferma alla banale stravaganza di un cuore smarrito e sostanzialmente spento.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta