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Starlet

Regia di Sean Baker vedi scheda film

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La recensione su Starlet

di leporello
8 stelle

Volendo raddrizzare un tantino la raffazzonata sintesi del plot offerta dal nostro amato sito FilmTV.it  (senza offesa, ragazzi: lo so che non si può arrivare dappertutto, vi voglio bene…) partirei con lo specificare che Mikey è un maschio, e non è solo il coinquilino della protagonista Jane (sorprendente Dree Hemigway) e di Melissa (altrettanto brava Stella Maeve), ma è anche il suo/loro manager/pappone, essendo l’attività principale delle due signorine quella di lavorare nel mondo della pornografia e (a tempo perso e per arrotondare) della prostituzione. E non è curiosità quella che spinge Jane verso l’anziana, burbera  Sadie (chi doppierà la meravigliosa Besedka Johnson un domani? Ci vedrei bene Pino Insegno, ergo: speriamo che non esca mai nelle sale…), ma è la perplessità, il dubbio, forse un genere di senso di colpa per aver trovato dentro il thermos comprato da Sadie al mercatino dell’usato una bella quantità di comodissimi dollaroni, senza poter capire come e perché tanta abbondanza possa essere passata dalle mani della malinconica vedova(che non ha, coi suoi sabati pomeriggio dedicati a coltivare la sfortuna in una sala bingo e le sue grane con quelli dell’assicurazione, l’aria della miliardaria) alle sue bisognose quanto generose tasche.
L’amicizia che inevitabilmente nasce tra le due donne (altro che quote rosa, gente! Questo è femminismo vero, fatevene pure una ragione anche se il regista è maschio, e meditate…) non è per caso, ma per capire perché non è per caso  bisogna aspettare l’azzeccatissimo, sorprendente e commovente finale, del quale taccio molto volentieri, anticipando solo che è la ciliegina su questa ghiottissima torta.
Per confezionare l’operazione, il regista Sean Baker si appoggia con maestria al tenerissimo Starlet, un simil-chihuahua maschio (la razza più onomatopeica che esista al mondo) col nome da femmina (meditate, gente, meditate…), che Baker usa abilmente e frequentemente (anche un po’ ruffianamente, se vogliamo, ma con quella ruffianaggine innocua e simpatica, congeniale tutto sommato a noi italiani) come sponda tra una scena e l’altra, o all’interno di una stessa scena. “Stranger Than Paradise” trova in questo piccolo gioiellino il suo degno seguito. Involontario, immagino (credo e spero), ma finalmente, quasi 30 anni dopo l’esordio al fulmicotone in bianco e nero di Jim Jarmush, una degna continuazione. Aperta, a sua volta.
Forse il primo film che non sia etichettabile tra quelli a luci rosse in cui le scene di sesso sono inequivocabilmente esplicite e reali (non me ne vogliano i testicoli danzanti che erano forse, ma dico forse, quelli di Willem Defoe nell’”Antichrist di Von Trier), introvabile hic et nunc/forever and ever nelle sale parrocchiali, è da vedere, assolutamente (meditate, gente, meditate). 

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