Regia di Mikkel Munch-Fals vedi scheda film
Madre e figlio. Che si perdono, si ritrovano, si perdono ancora. Come nel capolavoro di Sokurov. Ma questa volta la storia non è immersa nella solitudine di una campagna senza tempo. Stavolta quel rapporto è aggredito dalla violenza delle città dei nostri giorni, dove si può essere distanti anche toccandosi, e si può essere nessuno in mezzo alla folla. Specchiarci in troppi volti non ci aiuta a capire chi siamo. Elisabeth è un medico e nel suo studio si alternano tante persone, tanti corpi, tante storie di piccole e grandi sofferenze. Ma tra queste non c’è traccia di quel ragazzo a cui ha dato la vita, e che poi si è allontanato, diventando un estraneo. Quel giovane, affetto da problemi psichici, è scappato di casa ed ora vive come un barbone. Dorme in un sottopassaggio della metropolitana e abita sotto una tenda appesa tra gli alberi di un bosco, in uno spiazzo cosparso di rifiuti. Il dialogo col mondo per lui è morto, perché della realtà coglie soltanto le scorie, e non desidera affatto ciò a cui tutti gli altri tengono: la normalità, l’affetto di una famiglia, la comodità, cibo buono ed abbondante. Però Elisabeth osa sporgersi, con tutta la forza dell’amore materno, oltre quella fitta barriera di incomunicabilità. Il regista danese Mikkel Munch-Fals, al suo secondo cortometraggio, sceglie di concentrare il senso del dramma nell’inutilità di quelle parole e di quei gesti che vengono ripetuti con insistenza, eppure sembrano gettati al vento. Contemporaneamente, riesce a farci intendere che il vero significato, quello che può essere afferrato anche da una mente confusa e disabituata al dialogo, è racchiuso nel silenzio che apparentemente sottolinea l’incomprensione, ma in realtà consente ai pensieri inespressi di incontrarsi nell’insondabile territorio del non detto. Ciò che si prova veramente è ciò che si tace, ma che traspare, impercettibilmente, dalle sfumature del discorso, dai movimenti che sfuggono alla vista e rivelano le tensioni dell’anima. I sentimenti più autentici non sono mai espliciti; l’amore, specialmente, segue sempre vie traverse, e preferisce non sapere, e vedere le cose a modo suo. In questa storia c’è qualcosa di non chiaro, che un po’ ci turba: forse un segreto che deve rimanere tale, e che solo restando nascosto nel fondo della vita può continuare ad operare i suoi miracoli. Partus vive di una magia sinistra, come quella della follia, che può manifestarsi nell’assurda testardaggine di tentare l’impossibile, o nell’autolesionistico rifiuto di essere amato. In questo film due opposte pazzie si incontrano, e alla fine si capiscono. Noi, invece, non capiamo. Ed è giusto sia così.
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