Regia di Ron Howard vedi scheda film
Se si può definire il regista ed eterno ragazzo Ron Howard, uno dei più classici cineasti americani del millennio, con Rush si conferma tale anche per la scelta dell'oggetto portante del film, l'automobile simbolo e desiderio di progresso e di conquista, di ritualizzazione della modernità. Se la scena è totalmente occupata dalle vicende ricostruite dall'epoca (metà anni 70) che ha visto contendersi il primato nella formula uno fra due piloti opposti per carattere e per filosofia di vita come Niki Lauda e James Hunt soddisfacendo uno sviluppo narrativo intuibile, è la mediazione simbolica dell'auto che innesca considerazioni che possono evidenziare gli aspetti meno enfatici in rapporto alla figura del campione sportivo e alla cultura di massa che lo eleva al rango di mito contemporaneo. L'ambiente rappresentato è circoscritto, il mondo delle corse con i suoi feticci, sentimenti e risentimenti compresi, il tracciato stradale non è più casuale e illimitato come nel road movie dove l'asfalto muore all'orizzonte ridefinendo il paesaggio. Il circuito della gara automobilistica è un' afflizione masturbatoria dello sguardo al cui interno ristagnano i modelli legati ai valori consumistici, senza scelta nè giudizio da parte dello spettatore, con quest'ultimo incline a protrarre la sua attenzione verso lo spettacolo oscenamente celato nella sua mente, la smisurata euforia per una corsa che sfida la morte. Il mondo intorno ai circuiti è curiosamente simile in ogni luogo, in onore della colonizzazione dello sguardo si avvale di meccanismi oliati e prefissati, il calcolo del rischio, il gioco delle parti, il campione maledetto, il comprimario più simpatico, il costruttore senza scrupoli, le donne apparentemente sciocchine e profittatrici ma all'occorrenza di grande spessore umano ecc...La mistificazione ideologica tiene botta in ogni epoca, del resto il buon Howard è cresciuto negli Happy days. Il regista però è anche un buon artigiano del cinema, miscela sequenze rombanti e spettacolari con gli spasmi di vita dei due protagonisti, riuniti in una specie di giano bifronte del presente con cui alimentare la propria fama. Non si può negare il coinvolgimento spettacolare e il ritmo avvincente delle immagini che appassionano anche chi non è mai stato interessato alle vicende legate all'automobilismo, la debole introspezione sui personaggi però non determina un rapporto personalizzato fra lo spettatore e i fatti riproposti, ci si sente unicamente parte indistinta della folla assiepata in tribuna. Il momento cruciale nella vita sportiva dei due rivali e un pò "quasi amici" sarà quello del ritiro, simile nel significato e nella consapevolezza della ragione ritrovata, la regia però non investe troppo su questo aspetto: sia Lauda che Hunt pur percorrendo carriere diverse approderanno alla stessa conclusione, la ricerca della perfezione meccanica, la tecnologia del mezzo supera l'uomo, il pilota perde ogni connotazione umana e sovrumana, il mito non può ricrearsi in eterno con gli stessi volti. Niente invece sul fronte del cortocircuito che unisce soggetti attivi (i piloti) e passivi (spettatori) con l'inconscio ruolo di questi ultimi tesi a sovvertire i rapporti di forza con i loro idoli. Essi assistono ad uno spettacolo che interiorizza in loro la pulsione di morte, sfuggire ad essa per confermare l'illusione della propria immortalità attraverso l'incolumità del pilota che rischia al loro posto è elettrizzante. Vederne la fine gloriosa in un incidente è ancora più appagante, come fosse un dio che domina dall'alto (o dal divano di casa) vita e morte altrui. Per otto mesi all'anno, ogni venti giorni circa lo spettacolo si replica e non c'è che dire, se funziona è proprio una gran bella botta di adrenalina.
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