Regia di Ron Howard vedi scheda film
Apollineo e dionisiaco, genio e sregolatezza, essenzialità ed esagerazione, ragione e impulso, mente e corpo e potremmo andare avanti per ore. Rush è la resurrezione del film d’inseguimento, e il doppio senso in questa espressione è più che voluto. Ovviamente, sin dal titolo, parliamo di velocità, per di più sulle piste della Formula Uno. Ma l’inseguimento è soprattutto umano, due uomini che si rincorrono per anni, e le macchine sono, se non un pretesto, un mezzo per affermare la propria superiorità. Da una parte la freddezza e il cinismo di Nicki Lauda, dall’altra il disordine e il fascino di James Hunt. Perché si rincorrono? Perché semplicemente l’uno non sopporta l’altro, ma l’uno non può fare a meno dell’altro, per completarsi, affrontarsi, annientarsi, congratularsi, vendicarsi. Un duello in cui il sangue versato è accidentale per quanto calcolato, in cui la morte si aggira come uno spettro in attesa di palesarsi e nel frattempo si rivela sotto forma di vomito o di sguardi smarriti. Quando metti in conto il pericolo di morire sul serio, d’altronde, perdi tutta la volontà di correre senza pensare ai rischi.
Che film, Rush. Capace di smuoverti passioni anche se non capisci niente di automobilismo. È naturale che la corsa sia un pretesto per tracciare i profili di due personaggi antitetici che trovano una comune sintesi nel perseguimento di un solo obiettivo: essere campioni del mondo, per riscattare le proprie immagini agli occhi delle famiglie ostili, per la gloria eterna, per il piacere, l’onore e la brama di vincere. Il rumore delle auto non copre mai le pulsioni dei nostri due eroi, né impedisce di connettersi con il sentimento del tempo: è il sintomo del classico, categoria di cui Ron Howard fa ormai parte di diritto, per la capacità di dare un nuovo senso al cinema popolare nell’era del blockbuster ad effetto e usa-e-getta, comunicando tensione e partecipazione, ma anche distacco. Benché Lauda sia maggiormente al centro della scena, non è sempre vero che le simpatie si rivolgono verso di lui, personaggio naturalmente antipatico per pignoleria ed apparente presunzione: Hunt, dio in terra, dovrebbe rappresentare la parte “negativa”, più dissoluta e scombinata, ma è inevitabilmente un personaggio che il pubblico è disposto ad amare, perché fa e ha tutto ciò che la maggior parte degli uomini e le donne vorrebbe fare ed avere.
Il merito è anche di Peter Morgan, autore di un altro scontro infernale senza esclusione di colpi (lo erano, a loro modo, anche la trilogia su Tony Blair e Frost/Nixon) che nulla cede alla retorica e alla ruffianeria. Al di là dell’ovviamente impeccabile reparto tecnico (incetta di Oscar in arrivo?), due parole sui due attori, alle prese con personaggi complicati e sfaccettati: se Chris Hemsworth è la quintessenza della perfezione estetica e l’interprete ideale di Hunt “The Shunt”, Daniel Bruhl nei panni del sobrio e nervoso Lauda trova il miglior ruolo della carriera dai tempi del mai dimenticato esordio di Goodbye, Lenin!.
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