Regia di Ron Howard vedi scheda film
Rush parte in pole position forte di una storia vera incredibile e di uno script brillante che scava nel profondo di due anime opposte unite nello scrivere pagine casualmente sportive che puzzano di mito.
Il duello rusticano nell’anno di grazia 1976 tra la faccia d’angelo indemoniata del donnaiolo James Hunt - dedito al culto dell’immortalità e dello spasso a tutti i costi - e il sorcio antipatico persino a sé stesso Niki Lauda - fervente seguace del calcolo e della disciplina -, ha la consistenza aspra e antica di un western d’altri tempi.
I motori rombano assordanti, liquidi d’ogni tipo - benzina, alcool, sangue - scorrono in quantità enormi, le tensioni raggiungono livelli illimitati, i rischi concreti accettati come compagni di bevuta o come fredde probabilità statistiche, piedi destri e (in)coscienza branditi come armi letali pronte a colpire: chi cadrà per primo uscirà sconfitto.
Ma in un mondo che corre folle a velocità inumane, un uomo caduto creduto morto può rialzarsi, abbattere le barriere della ragione, superare la frontiera polverosa e intossicata di una stasi orribile e "innaturale".
Cosa può spingere a tanto? Ignorare gli altri, coprire ferite non ancora rimarginate, mostrarsi col volto sfigurato?
È un richiamo animalesco, un istinto troppo forte per essere evitato: quello - Hunt - vince raccogliendo punti su punti mentre lui - Lauda - giace impotente su un fottuto letto d’ospedale.
Duello, sì, ma anche un rapporto irripetibile di mutuo soccorso: ognuno ha bisogno dell’altro. Per bruciare chilometri e una passione indomita, irrefrenabile, indefinibile; arrivare primi, oltre, là davanti a tutti, all’altro.
Quindi eventi e personaggi, e leggende, che forniscono una materia che Peter Morgan plasma alla grande puntando sugli elementi multiformi della psiche e della sfera intima, lasciando alla natura sportiva il ruolo di sfondo e di “casuale” principio scatenante.
Ma la partenza è notoriamente soltanto un punto d’inizio: Ron Howard s’adagia sul (comodo) seggiolino della fuoriserie e punta dritto, sicuro, sciolto al risultato. Dopotutto, è un regista solido, di stampo classico - e classicamente americano -, pochi fronzoli e tutta sostanza.
Lo conferma anche in Rush: direzione precisa e robusta, senza sbavature evidenti, cura ottima nella ricostruzione dello scenario anni settanta (decisivo il contributo della fotografia ruvida del sempre notevole Anthony Dod Mantle), direzione apprezzabile degli attori (bravi entrambi gli interpreti, ma Daniel Brühl prevale nettamente per intensità e sguardo), funzionale bilanciamento tra le parti riflessive e parti movimentate (il ritmo comunque è sostenuto ma non concitato). I (pochi) cali di tono, alcune scelte magari evitabili (le voci off dei protagonisti), un finale non all’altezza (non era meglio chiudere prima, all’apice della tensione?), una ricerca filologica che a tratti distrae e appesantisce: non tutto fila liscio, ma nell’ottica della suggestiva lettura introspettiva-antropologica ispirata da Morgan, tutto sommato si accetta e si prosegue oltre.
Laddove Howard pecca, trainando il film verso territori più protetti e garantiti (quelli del pur non disprezzabile filone sportivo drammatico), è nell’aver solo intuito (ed in parte colto) tale visione della sceneggiatura, e non aver di conseguenza saputo rendere appieno l’epicità e il pathos scaturenti da un incontro/scontro di uomini originato e sviluppato in condizioni difficilmente replicabili (chissà, magari studiando qualche classico western …).
Tuttavia, non si può certo affermare che il regista non porti a termine la missione: non darà impulsi elettrici alle correnti artistiche della cinematografia, ma Rush scorre dannatamente bene.
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