Regia di Dante Ariola vedi scheda film
Seconde occasioni, sogni pirandelliani di assumere l’identità di un “uomo nuovo”, fughe precipitose da problematiche grigie esistenze: le coordinate, pur derivative, potrebbero individuare un luogo interessante, piacevole, invece descrivono una parabola banale, grigia nella sua conformazione, mesta per gli effetti che produce.
Il mondo di Arthur Newman sfreccia, per così dire, sui binari inesauribili e confortevoli, lungo l’usurata rotta della provincia americana, del road movie riflessivo: con l’avanzare delle miglia percorse si acquisiscono progressivamente coscienza e consapevolezza - dei propri errori, delle responsabilità, delle possibilità presenti e future. La statica - nonché stitica - realtà è che scivola via senza lasciare granché traccia di sé: tante sono le situazioni straviste, prevedibile lo sviluppo, insufficiente la definizione dei personaggi, stereotipata la confezione laccata dolceamara che sempre aiuta a darsi un tono impegnato e “indie”. Infine, irritante il finale sempliciotto, conciliatorio, “obbligatorio”, che mette le cose a posto per tutti.
Nelle fauci di una sceneggiatura piatta, incapace di mordere e graffiare, il boccone grosso è una rimasticatura di noti brandelli del genere sempre pronti all’uso: l’ennesimo padre di famiglia immaturo e assente lasciato dalla moglie e detestato, scansato dall’unico figlio, la giovane donna sbandata preda di omuncoli e dei propri vizi con disturbi psicologici in procinto di esplodere e un segreto da nascondere (ma pure la gemella schizzata …); l’incontro di queste due anime sole e in crisi d’identità, le conseguenti diffidenze e scaramucce, il viaggio insieme inseguendo il sogno perduto di lui, la scoperta di un sentimento reciproco, lo scontro con l’amara realtà, il ritorno a migliori e più buoni(sti) propositi.
Andamento scontato, condotta incolore, funzionale taglio dramedy con inserti di scene e situazioni brillanti su morbido tappeto introspettivo: Il mondo di Arthur Newman è un film innocuo, insomma. Non offende né si può dire che sia malfatto, ma sulla sua (in)utilità sussistono pochi dubbi.
Coinvolti loro malgrado gli attori protagonisti, non esattamente i primi due che passavano dal set per caso. Colin Firth può permettersi ormai quello che vuole; qui cerca di dare un senso alla pellicola (e alla propria presenza) impegnandosi un poco, ma alla fine si distingue perlopiù perché cerca di coprire il suo essere fascinoso con gli occhiali perennemente sul naso e l’aria abbacchiata. Splendida compagna l’adorabile Emily Blunt, che forse ha un ruolo leggermente più stratificato, o quantomeno con qualche sfumatura e possibilità in più, ma in ogni caso non può incidere più di tanto.
L'alchimia tra di loro si crea, però, complice la modesta qualità dello script, rimane ad uno stato larvale, che a tratti denota impaccio, e comunque non è convincente l’evoluzione delle dinamiche di coppia, tra questioni personali, azioni da piccoli criminali e un (edulcorato) aspetto sessuale.
Finita l’avventura, comprese un po’ di cose prima evidentemente oscure e evitate per vigliaccheria, il rientro significa aver fatto molti passi in avanti per trovare la strada giusta, il proprio posto nel mondo.
Che noia.
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