Regia di Robert Redford vedi scheda film
Storia di un cold case: agenti del FBI catturano una latitante, che trent’anni prima aveva preso parte a una sanguinosa rapina organizzata dal movimento radicale Weather Underground, e ora braccano i suoi complici ancora liberi. Sapere che Redford, anche se (non sgradevolmente) imbolsito, è vivo e lotta insieme a noi è una delle cose che riconciliano col mondo: è rimasto l’unico che si ostina a fare un cinema nello spirito degli anni ’70, non per inerzia o per nostalgia passatista ma perché crede ancora in certi valori; e pazienza se le nuove generazioni alle quali cerca di passare il testimone non sono sempre all’altezza (il giornalista è un coglioncello insignificante). Qui ripesca un argomento quasi rimosso da Hollywood (mi viene in mente solo Vivere in fuga di Lumet): la sorte degli ex pacifisti che negli anni della contestazione si erano macchiati di crimini e poi si sono mimetizzati negli anfratti della società americana, magari grazie ad alleanze insospettate. Una comunità dispersa, spezzettata, i cui membri non preparano più la rivoluzione ma non si sono neanche imborghesiti; disillusi ma non arresi, ognuno di loro a suo modo è rimasto fedele a sé stesso e potrebbe sottoscrivere la frase di Susan Sarandon: “Abbiamo sbagliato, ma avevamo ragione”.
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