Regia di Jeremy Power Regimbal vedi scheda film
Thriller? Dramma? Forse solo un giallo banale attorcigliato intorno alla solita follia assassina, e maldestramente compresso tra un affanno di introspezione ed un timido cenno all’elaborazione del lutto. Questo horror canadese a sfondo familiare, palesemente ispirato a Funny Games, convince poco a cominciare dal titolo, in cui si coglie un inutile riferimento allo sdoppiamento della personalità (o alla penetrazione in quella altrui), che, nel film, è un aspetto totalmente trascurabile. L’ansia claustrofobica di ritrovarsi sequestrati in casa propria e il panico di sentirsi assediati dalla morte, da La notte dei morti viventi in poi, sono i diventati motivi ricorrenti di un genere che con la serie di Paranormal Activity ha finito per fare propri i registri del reality, del voyeurismo casalingo che sconfigge le barriere della decenza. Questa pellicola prova, a modo suo, ad aggredire la tranquillità della middle class con l’invadenza del dolore, della violenza, dell’oscenità, mescolando provocatoriamente romantici ricordi d’amore e le più primitive funzioni corporali. Ma il risultato è un tiepido pastrocchio di emozioni disciolte nell’imbarazzo e nell’incertezza sul modo in cui farle interpretare agli attori. Il registro oscilla così tra il realismo spento dell’improvvisazione e la surreale disarmonia di una teatralità allucinata. Intanto il tono narrativo, discontinuo per vizio o per passione, spezzetta la storia in una successione di luoghi comuni, disadorne fotocopie del già visto, e, quando finalmente l’azione potrebbe prendere il sopravvento, il ritmo si incaglia nell’incapacità registica di gestire i picchi di tensione e le situazioni dinamicamente complesse. I temi della casa trappola, della vacanza maledetta e del maniaco sanguinario, si incontrano per l’ennesima volta in un verde paesaggio di montagna, ma anziché tingersi degli artistici colori di Shining, si accontentano di giocherellare senza fantasia con il linguaggio frammentario e convenzionale della cronaca televisiva, laddove la sensazione si costruisce mettendo insieme, in ordine sparso, idee deliberatamente semplici e confuse. Ma il caos, in questo caso, perde miseramente, mentre la noia vince alla grande, forte di una sapiente miscela di citazionismi da quattro soldi. Tra questi spicca un incipit da road movie con una superflua sosta ad un motel (in cui, chiacchierando col padrone, si narra l’antefatto e si introduce l’atmosfera) ed un protagonista psicopatico che assomiglia un po’ troppo ad Anthony Perkins. Non manca nemmeno il tipico finale da crime series anni ottanta, con l’ambulanza, la polizia ed i cadaveri portati fuori all’interno degli immancabili sacchi di plastica nera. In Their Skin è un dozzinale ballo in maschera, una festa dei travestimenti assai fallimentare, in cui i vecchi costumi presi in prestito dal museo del cinema non riescono a fare la loro figura. D’altronde, sono davvero pochi, al mondo, quelli che li sanno degnamente indossare.
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