Regia di Travis Fine vedi scheda film
«Tutti vogliono un finale felice». Ribadire l’ovvio non è sempre scontato, soprattutto se per arrivare a quel finale - concesso o negato, non stiamo qui a rivelare lo scioglimento della trama - si costeggiano con slancio evidentemente sentimentale i cliché del genere. Any Day Now, dramma giudiziario che inizia romantico - e mantiene caldo il cuore innalzandolo sugli ostacoli legali -, racconta una storia di denuncia sociale restando fedele a un fulcro umano.
La storia, ambientata nei Seventies, parla di una drag queen (Alan Cumming, meravigliosa creatura sotto i lustrini di scena e la parlantina tranchante di chi dice pane al pane), di un avvocato (Garret Dillahunt, in un’interpretazione di generoso e funzionale understatement) e di un ragazzino affetto da sindrome di Down (Isaac Leyva, esordiente capace di tradurre la verità in empatia). Per una rapida sequela di eventi coinvolgenti l’abbandono del minore e l’alchimia spontanea tra i due uomini, i tre personaggi diventano una famiglia: suggellata dai filmini amatoriali dolci e sgranati (scelta che fa urlare alla didascalica sfrontatezza quanto alla tenera ingenuità), osteggiata da una collettività incapace di accettare il diverso sebbene questo si offra sinceramente esemplare. Il ricatto morale, innescato da una scrittura spesso manichea, è dietro l’angolo delle buone intenzioni, ma queste sono talmente scoperte (ed elevate a potenza melodrammatica e incredibile da inserti quasi musical) che ci preparano alle crepe di un epilogo più pedagogico che cinematografico.
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