Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Refn allestisce una storia di vendetta la cui forza espressiva è tramortita dai suoi consolidati dettami personali, gettando all’aria un buon cast ed un’invidiabile messa in scena. Troppi nonsense rischiano di fare un film totalmente senza senso, di una autorialità egocentrica e impunemente velleitaria: un “copia e incolla” che non si cura nemmeno
La trama di “Solo Dio perdona” è riassumibile in due maniere. La prima parla di spacconi americani che in terra asiatica credono di poter fare il proprio comodo (rimanendo delusi dagli esiti del confronto); la seconda narra di arti marziali, spade affilate ed una vendicatrice bionda. Il problema è che non si tratta né di un film sul Vietnam, né del terzo capitolo di “Kill Bill”. Anche se col cinema di genere e con le pellicole di Tarantino, questo film centra, e non poco.
L’ultima fatica del danese Nicolas Windin Refn prova a clonare il tarantinismo (quello fatto di tante idee già viste che, trattate con un po’ di malizia, provano a diventare qualcosa di originale). Come col precedente “Drive”, da cui non si discosta tanto per stile e ritmi, la seconda pellicola del duo Refn-Gosling conferma una rete di suggestioni e di dettagli, orgogliosamente elegante nella messa in scena grazie ad una confezione sofisticata a contrasto con una storia dai toni foschi.
Ma a partire dalla caratterizzazione del citato protagonista, “Solo Dio perdona” dimostra di non giovare delle felici alchimie del precedente film, anzi di rimanerne clamorosamente imbrigliato. Certo, ne rimane la filosofia di fondo, ma se ne perde la fluidità. Colpa di una storia inadatta alle velleità dell’autore. Così ricca di simbolismi oscuri, di citazionismi di maniera, di fatue furberie. Il risultato è la conferma che il postulato teorizzato da Quentin Tarantino, secondo cui non si possa fare cinema moderno prescindendo da personaggi cool e da una tecnica di regia sofisticata, è applicabile a Tarantino stesso ma non automaticamente ai suoi epigoni.
Ralenti e suoni sincopati, fotografia accesa e spesso monocromatica, uso spasmodico dei corpi da mostrare nella loro più evidente labilità: il cinema di Refn si è perso nell’emulazione, guardando a John Woo e Terence Malick, a Quentin Tarantino e David Lynch, riesumando persino la prospettiva centrale cara a Stanley Kubrick. Prendendo un po’ qui e un po’ là, il danese perde però la trebisonda.
E non basta la cura spasmodica della messa in scena o l’uso sistematico di un accompagnamento sontuoso per far gridare al capolavoro. Questo è un cinema che vuole essere d’autore, ma dimostra di essere cinefilia farlocca (e anche disonesta). Ne paga le conseguenze, con buona evidenza, Ryan Gosling. Non il personaggio, ma l’attore. Se il pilota di “Drive” era un killer silente e probo (ruolo qui assegnato a Vithaya Pansringarm, detto non a caso l’Angelo della Vendetta), il Julian di questa pellicola non appare diverso da un merluzzo surgelato, uno che, colpa di un complesso di Edipo andato in vacca, affronta con la medesima apatia e con la stessa dose di nichilismo sia una bibita fresca al bar che la lotta per la sopravvivenza (anche se sentitissima, perché figlia di una voglia di vendetta e di un dettame matriarcale). Anche il minimo istinto di sopravvivenza, nell’assurda scena centrale di lotta tra Julian e Chang, avrebbe da solo giustificato una sopracciglia arcuata o un ghigno di rivalsa. Invece la glacialità quasi inumana, il torpore e l’avarizia di espressioni del protagonista non hanno nessuna giustificazione plausibile.
Bella fotografia, attori capaci, ambientazioni suggestive. Ma il cinema è molto altro. È una storia. Con un suo ritmo. Per rimanere fedele a se stesso, Refn ha dimenticato questi ultimi aspetti. Perché l’ermetismo della messa in scena, così forzato e ingiustificato, non è frutto di tasche di senso da svuotare all’occorrenza, ma di un’operazione di (tentato) sensazionalismo che non fa altro che gratificare solo se stesso, deludendo lo spettatore.
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