Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Dopo il discreto “Drive”, Refn era chiamato al salto di qualità: avrebbe dovuto diventare, secondo i critici più ottimisti (e per qualcuno ha fatto centro), il nuovo “teorico” del cinema violento americano, l’ultima frontiera del post-noir. Niente da fare, almeno non ancora. C’è un piccolo passo in avanti rispetto al film precedente, un tempo più allentato, un mood più riflessivo, una maggior tendenza all’astrazione: la trovata più interessante del film risiede nel tentativo, solo in parte riuscito, di prescindere da trama e personaggi, per creare una sorta di “spazio mentale”, tarkovskijanamente immaginifico, in cui si materializzano pensieri, paure e desideri. Molte sequenze sono mute, accompagnate da suadenti note techno, narcotizzate da ralenti, incantate da scenografie al neon e cullate da eleganti movimenti di macchina, mentre il montaggio (assieme al gioco di sguardi dei personaggi) unisce corpi ed anime fra di loro dislocate in luoghi diversi, annullando il tempo e creando quindi una sorta di spazio virtuale e fantasmatico. Tutto questo costituisce un interessante punto di partenza per un raffinato studio sui concetti di congiunzione e separazione dell’immagine filmica (e sui significati che ne derivano). Il problema è che questo spunto non viene portato avanti fino in fondo, e soprattutto non trova un adeguato appoggio sul piano dei contenuti. Anche in un opera “formalista” come quella di Refn occorre una sceneggiatura ben calibrata, magari anche minimale ed ellittica, però lucida e solida. Purtroppo lo script di “Solo Dio perdona” passa in rassegna diversi temi, senza riuscire ad approfondirli in modo adeguato: se l’erotizzazione della figura materna è forse l’unica nota davvero intonata, tutto il resto (rivalità tra fratelli, frustrazione sessuale, vendetta, sadismo, scontro etnico, cascami religiosi e altro ancora) non riesce a “tenersi assieme” in alcun modo. Il risultato è che quello spazio mentale, (in)definito in un tempo sospeso, risulta essere vuoto come le forme (patinate, stilose, arty) che Refn adotta come linguaggio prediletto. Fondamentalmente, questo è cinema di retroguardia. Cose del genere le faceva Takeshi Kitano 20 anni fa (“Sonatine”, condotto sulla stessa visionaria idea di spazio-tempo), ma con il doppio della lucidità e dell’ispirazione. Quello era vero cinema esistenzialista, neo-bressoniano, post-moderno nel senso più profondo del termine. Quello di Refn invece annaspa nel già-visto, aggrappandosi a citazioni più o meno dotte (corridoi, carrelli, visioni come in “Shining” di Kubrick; il contrasto fra perversione e grazia canora come in “Velluto Blu” di Lynch; l’iperrealismo cromatico di un Wong Kar-Wai), senza riuscire ad elaborare un’estetica davvero originale. Come thriller moderno, “Solo Dio Perdona” è godibile (al netto di un Gosling sempre meno espressivo); come film-svolta di un candidato autore di punta del cinema contemporaneo, è un mezzo fallimento.
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