Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Winding Refn torna sui suoi stessi passi reiterando il proprio personalissimo concetto di cinema visto come forma d'arte catartica, una tela su cui sfogare istinto, rabbia, frustrazione, inconscio attraverso l'uso purissimo e attento delle immagini. Elementi primari stilizzati al massimo, scene come quadri, colori saturi violenti e simbolici, trama come scusa e sviluppo come asservimento ad una poetica già perfettamente esposta (e appresa dallo spettatore) nei suoi precedenti episodi. Ma dove in Valhalla Rising l'ambientazione era nel mito tutto funzionava e sapeva di novità, dove in Pusher l'azione era motore trainante veniva dato senso ai fatti e verve alla storia dei vari personaggi, dove in Bronson l'individuo sconfinava nel titanico e nell'arte come rappresentazione ed espressione di sè la pellicola decollava (scandita da guizzi di geniale metateatrocinema), dove in Driver si apriva all'amore e al senso paterno poggiando comunque su trama e sceneggiatura da racconto mainstream si chiamava a complice lo spettatore (regalando citazionismo e omaggio al genere); in Solo Dio Perdona invece l'ambizione sfrenata al perseguimento della sintesi, dell'astrazione e del simbolismo rasentano inibizione, una certa arroganza e carenza di sbocchi, linguaggi e/o nuove soluzioni. Il film nulla aggiunge a quanto già detto dall'autore in passato, per quanto forte ossessivo e spietato sia il suo verbo. Il confronto col cinema orientale, ambientazione quanto mai rischiosa è clamorosamente perso, così come la sfida di un'ipotetica contaminazione. Non basta girare a Bangkok, bisogna lasciarsi sedurre, intaccare e sporcarsi le mani. Quelle stesse mani recise per volontà o sconfitta suprema. In ogni caso resta indubbio il fascino di un'idea di cinema tanto complessa e ermetica quanto irrisolta nella sua sfacciata ferocia.
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