Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Dopo aver provato a scuotere il noir americano, sovvertendo in parte i codici genetici di quel genere, Refn dimostra di essere ancora alla ricerca di una sua identità cinematografica, o forse di essere semplicemente assalito da una volontà di collezione che lo spinge ad uscire dai propri confini verso la rivisitazione e la riproposizione. Solo dio perdona, già laconico e definitivo fin dal titolo, è una produzione low cost e con la sua titolazione coreografica sembra rivolgersi alle platee orientali, il regista si confronta con il punto di vista orientale su espressioni e tematiche cinematograficamente forti quali l’uso della violenza, la vendetta, la giustizia, il libero arbitrio, materiali in cui registi di quella parte di mondo si sono rivelati dei veri e propri maestri. Refn vi inserisce il tema della tragedia greca, vuole riscrivere un film di genere estremamente localizzato nei suoi termini, abusando fra l’altro della sua migliore intuizione (o riproposizione più riuscita), quella della dilatazione dei tempi, la frammentazione narrativa, lo soppio deflagrante della violenza, la scomposizione emotiva, congelando il racconto in un “no action” che se da una parte carica di tensione e di interrogativi ogni inquadratura, dall’altra non favorisce né ritmo né l’interesse stesso per eventi che possono benissimo neanche essere concatenati fra di loro ma casualmente collegati a tavolino. Il film è costituito su di una base narrativa assai flebile, una crime story con il risvolto edipico- disfunzionale, cioè visto nel primo pomeriggio non da effetti collaterali allo spettatore desideroso alla fine di respirare un po’ all’aria aperta. La sedimentazione visiva è demandata completamente alla forma, alle atmosfere lynchiane e al debordante, bellissimo e potente finale, che rappresenta anche lo snodo delle riflessioni su cui convergere: solo dio perdona e lo spettatore ? Il totemico Gosling è più catatonico che mai, dovrebbe sopperire con il linguaggio del corpo, con l’azione silente (vedi Drive o il recente Come un tuono di D.Cianfrance), invece viene confinato in secondo piano, poiché a prendere la scena in toto sarà il poliziotto Chang, autentica icona della filosofia d’oriente su come ci si sta al mondo da quelle parti. Se la figura semi divina e onnipotente di Chang è indiscutibile, la passività del personaggio occidentale Julian, interpretato da Gosling, impedisce qualsiasi influenza sull’altro, non porta ad un rendiconto che metta in discussione i comportamenti morali delle parti in causa. Mentre Chang uscirà a testa alta dall’impari sfida, il desiderio di vendetta e soprattutto di redenzione di Julian rappresentano forse lo smarrimento dell’occidentale moderno che non trova più valori a cui aggrapparsi, rassegnandosi ad accettare una qualsiasi soluzione finale nella quale potere annullarsi. La sua disperazione latente formalizza il contenimento della propria libertà, del libero arbitrio, dimostrando di non esserne mai stato prima in pieno possesso. Nel ruolo della tirannica madre di Julian, l’attrice Kristin Scott Thomas si ritaglia una parte indiscreta e tagliente, messa fortemente in pericolo dal dialogo ridicolo sulle dimensioni degli organi genitali dei suoi figli. Non è dato sapere se questo tipo di osservazioni sono rivolte a soddisfare il palato derisorio del pubblico orientale, ma difficilmente anche negli ambienti più reietti e criminali risulterebbero discorsi sostenibili. Non sarà che prossimamente Refn voglia confrontarsi con il cinema muto?
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