Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Crystal, a capo di un’organizzazione criminale, arriva a Bangkok dagli Stati Uniti per costringere il figlio Julian a vendicare la morte del fratello maggiore Bobby , ucciso da Chang un poliziotto spietato e rispettato come un dio.
Il noir, spazio metafisico nel quale la psicologia dei personaggi sublima sullo schermo sotto forma di immagini. Una seduta psicoanalitca freudiana durante la quale lo stato del sogno si mischia a quella di una realtà ipotetica, mai certa della propria presenza fisica. Il personaggio del noir desidera fortemente spingere lo stato di sogno/desiderio al di là del confine che separa il mondo reale dall’irreale. Le ombre sono come i passaggi segreti attraverso i quali il personaggio passa dallo stato psichico a quello fisico trascinando con sé dall’inconscio i fantasmi che lo perseguitano.
Motore delle azioni di ogni personaggio del noir è il destino, l’inevitabilità di conseguenze estreme dalle quali è impossibile sfuggire. Azioni che sottintendono reazioni , riverberi di un futuro già scritto ma verso il quale non viene opposta alcuna resistenza. Nel caso di Julian, un Ryan Gosling ancora più rarefatto nella recitazione ormai prosciugata di qualsiasi ridondanza, la visione del futuro è il flash forward di un incubo dalla presenza fisica tangibile.
Immerso in un universo metafisico e dislocante che accenna alle atmosfere oniriche di David Lynch, trova risoluzione nella violenza il castrante complesso edipico di Julian, oggetto e servitore di una madre fagocitante e ossessivamente dominatrice. Crystal ovvero Kristin Scott Thomas, bionda, vistosa, volgare e spietata criminale, ha in Nicolas Winding Refn colui che disegna attorno alle spigolosità del suo viso un personaggio intramontabile. La madre di tutte le mantidi ha nelle pose da femme fatale , oscena caricatura della sensualità, l’espressione carnale dell’utero metaforizzato negli ambienti vermigli abitati dal figlio quasi in stato di trance. Il sogno/desiderio di Julian è quello di rientrare nel grembo materno in un atto che di liberatorio non ha nulla. Una fuga verso l’interno, tornare all’atavico nulla primordiale annullandosi. L’atto violento della nascita e successivo abbandono non trova catarsi, solo una grandiosa punizione divina incarnata nell’opposto fallico. La lama della wakizashi di Chang (Vithaya Pansringarm) poliziotto elevatosi al ruolo di esecutore di volontà divina di vendetta.
L’ambientazione aliena di Bangkok , dalle strade sozze agli interni gravidi di ombre, sprazzi di luce al neon che confondono pacchiani orpelli per turisti con simboli della cultura e della religione Thailandese, è il palco dove va in scena un’assurda storia di vendetta, tra bordelli e psicopatici assassini. Inevitabile lo scorrere del sangue, in una messa in scena rarefatta e dalla furiosa compostezza dei gesti, letali, che riconducono alla necessità della ragione, anche nel combattimento, per garantire la sopravvivenza. Quindi nel male necessario a fin bene che anima le azioni di Chang, esiste una filosofia e una misura tutto sommato migliore della plateale crudeltà dei decadenti criminali americani, Bobby il fratello maggiore, psicopatico e violento, Juilan e la madre Crystal.
Se la trama si scrive su un francobollo, è l’estetica che fa di questo film un signor noir, moderno e disturbante. Ancora più radicale e tutto sommato ostico, rispetto al magnifico Drive (2011) , il riferimento principale è quello di Valhalla Rising (2009) surreale vicenda di vichinghi in cerca della terra promessa . Stesso furore, stessa glaciale rappresentazione della violenza. Sprazzi di futuro mostrati in scene dominate dal monocromatismo: il rosso. Ed espiazione della colpa attraverso il sacrificio.
Only God forgives, è un film dominato proprio da quel monocromatismo che ormai è cifra stilistica di Refn. Fotografava le derive psichiche di Pusher (1996), così come commentava i deliri di Bronson (2008) qui portato all’eccesso espressionista, in inquadrature annegate in totali blu o rossi innervate dallo score metallico e ronzante di Cliff Martinez, già collaboratore di Refn per Drive. Scene che sono quadri fissi, claustrofobici, inscritti in inquadrature simmetriche che imprigionano in caos in una psichedelica rappresentazione della razionalità. Dilatazione dei tempi narrativi che seminano indizi su moventi oscuri non più rintracciabili nella deriva morale dei personaggi, costretti ad attraversare quegli spazi come in stato di trance e diretti da Refn come marionette di carne in un metafisico teatro dell’assurdo. Only God forgives è annegato nel rosso del sangue, straziato da improvvise esplosioni di violenza che ricordano nella stilizzazione i primi film di Kitano e collassato dall’interno verso l’essenza del racconto cinematografico. Asciutto fino alla catatonia ma visivamente debordante nella messa in scena, è un film dal fascino perverso e dalla narrazione non convenzionale . Può infastidire per il consapevole manierismo che esibisce, sicuramente non può lasciare indifferenti.
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