Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Se in “Valhalla Rising” la violenza ed il sangue rientrano nel contesto storico del racconto, nell’ambiente naturale dei protagonisti che combattono per sopravvivere, qui la violenza è l’unico linguaggio che parlano gli abitanti di una Bangkok notturna, umida, losca. Un posto dove non esiste legalità, a partire dal poliziotto.
Se Refn non fosse noto e se il cast fosse composto da illustri sconosciuti, si starebbe adesso parlando di un buonissimo B-movie. Invece il regista è ormai affermato ed acclamato e il cast annovera due pezzi grossi, ragione per cui, dopo il successo del film precedente, le attese erano altissime e tutti gli appassionati aspettavano con trepidazione l’exploit di un nuovo successo, anche perché al duo di “Drive” si era aggiunta una beniamina dei cinefili. E l’exploit in effetti c’è stato e ha fatto un botto così grosso che la critica si è spaccata in due, tanto che è difficile leggere un giudizio intermedio: a diversi è piaciuto tantissimo ad altri è sembrata una boiata. Di certo siamo lontani da ciò che il pubblico si immaginava. Ma forse (è questo il mio dubbio) era proprio “Drive” ad essere diverso dagli altri film del danese, più allineato al genere noir classico anche se con forti note innovative.
La violenza dei protagonisti delle opere di Refn è presente sin dai suoi esordi e si è affinata e indirizzata in canoni prettamente estetici, partendo dagli episodi di “Pusher”, passando da “Bronson” per arrivare al celebre “Valhalla”; ma è proprio con il nuovo film che la violenza assume un carattere di danza, di essenza, di linguaggio e soprattutto di espressione estetica. Non c’è scena senza un minimo di aggressività, neanche il sesso è mostrato con la delicatezza che uno si aspetta, perfino il rapporto madre-figli è caratterizzato da ruvidezze, litigi, ordini impartiti in modo perentorio, predilezioni dovute a misure anatomiche. Ma se in “Valhalla Rising” la violenza ed il sangue rientrano nel contesto storico del racconto, nell’ambiente naturale dei protagonisti che combattono per sopravvivere, qui la violenza è l’unico linguaggio che parlano gli abitanti di una Bangkok notturna, umida, losca. Un posto dove non esiste legalità, dal momento che chi fa il bello e il cattivo tempo è un poliziotto: certo questa non è una novità per un noir, ma questo è un poliziotto che non verrà mai punito, uccide e giustizia (secondo il suo metro di giudizio) senza il minimo timore che potrà essere per questo punito. E’ padrone e giustiziere, cantante e boss, protagonista assoluto della scena. Errore pensare che Ryan Gosling sia il protagonista, lui è l’attore atteso, ma il vero padrone della città e del film è Chang, impersonato da uno ieratico Vithaya Pansringarm che ruba la scena a tutti.
L’altro protagonista è il rosso, il colore rosso che predomina in quasi tutte le scene, sia esso sangue che colore predominante della scenografia. Rosso sangue cupo sono il cielo, le pareti, le tende, i tappeti, i corridoi, rossi e lineari adatti alle carrellate in scene geometricamente prospettiche, che ricordano tanto la simmetria delle scene di Kubrick: al centro Refn ci piazza una porta, un viso, un tavolo accompagnando musiche dolcissime, chiedendo sguardi languidi, movimenti lentissimi sia della mdp che nei gesti degli attori.
Contano moltissimo gli sguardi in molte scene e i fans di Ryan erano in trepida attesa. Ma stavolta i suoi occhi non parlano come in “Drive”. Il suo sguardo è attonito, fisso, mostra forse decisione mista a dubbi, perplessità per le decisioni di sua madre (una inaspettata dark Kristin Scott Thomas), meraviglia per la piega che prendono gli avvenimenti, stupore per la sua evidente inferiorità rispetto ad un mostro di abilità nella lotta come Chang. Il medesimo sguardo sia davanti alla ragazza che si masturba per lui, sia davanti al giustiziere che lo minaccia. In “Drive” gli occhi di Gosling parlavano, esprimevano ora decisione ora tenero affetto per una donna indifesa e per il suo bambino (e qui accennava ad un debole sorriso). Il suo sguardo erano parole, qui fissità.
In ultima analisi non lo ritengo un film essenziale. Ho atteso quasi con impazienza che il film finisse, perché se Refn si sarà divertito a girarlo, quelle canzoni thailandesi sono sembrate lunghissime, adatte sicuramente a creare l’atmosfera giusta ma anche a far riposare gli occhi di qualche spettatore.
Visivamente ed esteticamente affascinante, emotivamente superfluo. Non credo sia il miglior film di Nicolas Winding Refn. Voto intermedio, solo per una questione di media tra l’occhio e la mente.
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