Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
“Sto andando ad incontrare il Diavolo” dice Billy a Julian, il fratello che lo aiuta a gestire una palestra di Thai box a Bangkok, città dove si sono rifugiati per ragioni poco chiare. Un incipit secco, quasi muto, che alla maniera dell’ultimo Sorrentino raggruma in poche sequenze il significato di una vicenda che sbriciola in un baleno la sua parvenza di realtà precipitando nella rappresentazione di una messa funebre popolata di personaggi già morti, condannati in partenza da un film che mette in primo piano la morte ed i suoi accoliti. Per officiare la funzione Nicolas Winding Refn sceglie ancora una volta un personaggio senza volto ne mistero. Julian, interpretato da un attonito Ryan Gosling, sempre più attore di riferimento di un cinema che ha smesso di raccontare in senso classico, si colloca sulle stesse frequenze emotive dello Stunt man che sfrecciava per le strade di Los Angeles. Un uomo consumato da un passato senza storia, e con una psicolgia spendibile solo sul piano della motivazione omicida che qui come li caratterizza i segni di una vitalità che si manifesta, e non per caso, in coincidenza delle uccisioni di cui Julian è sempre parte in causa. A contendergli il primato in termini di sangue è un funzionario di polizia, figura altrettanto rarefatta, risolta con pochi tocchi – l’ascendente carismatico verso buoni e cattivi ed un senso di giustizia super partes - che pongono la sua azione punitiva in una dimensione di cupio dissolvi, sparso a piene mani sull’insieme dei personaggi, tutti, nessuno escluso, macchiati da un peccato originale, e per questo votati all’autodistruzione.
Refn lavora su figure e situazioni archetipiche: dalla madre (Kristin Scott Thomas, irriconoscibile) dei due fratelli, una Eva castratrice e mascolina, artefice di tutti i mali a cominciare dalla dimensione edipica a cui informa i rapporti filiali, a Julian, vittima sacrificale disposta a tutto pur di ottenere un briciolo d’affetto, e senza dimenticare il crudele Punitore, che Refn, allentando ulteriormente i legami con il mondo terreno, rappresenta come una sorta di riverbero dell'inconscio di Julian; proiezione mentale delle paure e dei sensi di colpa che il rapporto con la madre prima, ed la morte del fratello gli hanno provocato, e che ora, attraverso il piano letale messo a punto dal temibile antagonista, vengono a riscuotere il conto. Per non parlare del sentimento di vendetta che pervade ogni centimetro della vicenda, mediante il quale Refn elabora le scene più dinamiche della storia, con apparizioni, inseguimenti e sparatorie che interrompono i lunghi momenti di stasi, in cui “Solo Dio perdona” sembra implodere in un crogiolo di varia afflizione.
Insieme a “Bronson” (2008) e “Drive”(2011) “Solo Dio perdona” dimostra la capacità di Refn di adattare la sua poetica (girare è un atto di violenza)a generi e culture. Così dopo il biopic sul carcerato più famoso d’Inghilterra, girato nella terra d’Albione e realizzato adottando le forme di una teatralità ed il sarcasmo che potrebbero appartenere ad un allestimento drammaturgico di Marlowe, la crime story losangelina sul destino di un Cavaliere moderno, chiamato a tener fede ad un galateo che non prevede alternative, in cui il regista metteva in scena non solo luoghi e circostanze di tanta letteratura noir, ma anche un modo di raccontare, che pur con le debite differenze, teneva conto della continuità narrativa e della scorrevolezza degli omologhi modelli americani, Refn chiude il cerchio trasferendosi in Tailandia e realizzando “Solo Dio perdona”, sintesi di una commistione che analogamente alle esperienze precedenti mette a sistema mainstream indigeno e visione personale. In questa modo il gusto per i tempi dilatati, gli sguardi che si perdono nel vuoto, la mancanza endemica di parole e le pulsioni sfogate con incontinente ferocia si sposano alla perfezione con l’hip hop degli action movie orientali, replicati negli sguardi ieratici dei poliziotti e dei malavitosi locali, nel loro modo naif di disporsi all'interno dello spazio scenico, così come nei tipici inserti musicali, utilizzati come intervallo narrativo ed alleggerimento emotivo, e qui monopolizzati dall'antagonista di Julian, pronto ad esibire sorprendenti abilità canoLacerato da pulsioni omoerotiche,
"Solo Dio perdona"è un film di, e per soli uomini. Refn ci mette dentro Shakespeare, Lynch, gli spaghetti western e l'idea radicale che le immagini insiema ai suoni ed ai colori siano l'unica sceneggiatura possibile. Alcune volte funziona, come nelle scene all'interno della casa/palestra, vero e proprio labirinto mentale in cui tra incubi e presagi prende vita l'angoscia di Julian, oppure nella capacità di rafforzare la peculiarità dei caratteri centellinandone le apparizione, come avviene per la perfida madre, forse il personaggio più riuscito del film, interpretata da Kristin Scott Thomas con un piglio che sembra rispolverare in chiave moderna il personaggio di Crudelia Demonde. In altri casi l'ammirazione è puramente estetica, con il cuore che langue per eccesso di freddezza. Nel caos del mondo creato da Winding Refn non c'è spazio per il rumore dell'anima. Anche le mani recise da un colpo di katana non producono grida ma solo decibel e note musicali.
(pubblicato su icinemaniaci.blogspot.com)
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