Regia di Nicolas Winding Refn vedi scheda film
Solo Dio (si) perdona.
Laddove “Dio” sta per il “Poliziotto”.
Angelo della morte, Diavolo della vendetta, Principe della (sua) giustizia, Sciamano: un Essere perfetto, invincibile, mit(log)ico, che possiede i doni dell’onniscienza, dell’ubiquità, dell’assoluto controllo su chiunque ne incroci il supremo volere e la strada lastricata di somm(ari)e intenzioni.
Col suo canto incanta (per i “colleghi” è una divinità da adorare e servire sempre e comunque), con la sua austera aura celestiale/infernale pietrifica (chi pure non lo conosce - ovvero non sa di conoscerlo - si converte in una frazione infinitesimale di tempo offrendo tutto di sé), con la sua arma lacera infedeli e corrotti purificando all‘istante ogni infezione.
«Lo sai chi è lui?» chiedono al povero Julian. E lui lo sa, certo, fa cenno di sì con la testa; e dopotutto la figura divina gli era già apparsa in visioni da incubo vermiglio. Lo sa chi è eppure si lancia in un combattimento straperso in partenza, perché, come ogni Dio che si rispetti questi esige i sacrifici di coloro che hanno osato sfidare la massima autorità in cielo e in terra.
Ecco, proprio “sacrificio” è la parola chiave: tutti, anche e soprattutto chi appare quanto di più lontano ci sia dall’essere un buon samaritano (il riferimento è in particolare alla luciferina e puttana “Madre”), s’immolano innanzi alla morale del Dio/Poliziotto. Una morale che solo Egli padroneggia e comprende, per gli altri è solo un comandamento da rispettare pena il martirio.
Bene, svelato l’arcano, forse anche (il) Dio lo è: riflesso nella impassibile forma umana/ultraterrena/ultrafilmica, appare sempre più nitida la ghignante sagoma del buon Nicolas Winding Refn. Come dire: un tantino eccessivo, questa volta. Ma eccessivo non rende bene l’idea: il fatto è che l’ultima pellicola del regista danese pecca di narcisismo, soffre in rigore e senso, è del tutto sbilanciato verso un’unica risorsa, le immagini.
Le immagini che “parlano” al posto dei volti e corpi chiusi in un mutismo esistenziale, ma se quello che dicono e riescono a trasmettere è avvolto in una nube di indifferenza, apatia, freddezza, ripetitività, evanescenza, malessere - dunque, l’opera non può dirsi certo riuscita. Un’opera congelata sotto il glaciale sguardo di Refn (investito di pieni poteri ed in piena coscienza di sé e delle proprie doti) ma che si scoglie mesta come un frammento di ghiaccio nel magmatico mare del disinteresse (per non dire irritazione).
L'autore del pluriacclamato Drive sa come governare la materia, sa filmare, sa come piacere, ed infatti in Solo Dio perdona si ritrovano ampi squarci del suo stile e della sua innata capacità di creare cinema, ma essi non sono altro che brandelli di virtù sparpagliati alla rinfusa per rendere il panorama più gradevole, rassicurante.
Quella che ha tutta l’aria di essere un’operazione “minore”, forse frutto di una iperattività difficile da gestire, ha senz’altro più affinità con il meraviglioso Valhalla Rising che con il precedente lavoro che vedeva sempre Ryan Gosling come protagonista (il già citato Drive). Ma le parentele si fermano all’estetica, agli inserti cromatici, alla estrema/estremizzante fascinazione visiva e sonora, non possedendone l’intensità, la potenza e la prospettiva drammaturgica e mistica, il rigore, l’anima.
E proprio l’anima è l’elemento che maggiormente manca a Solo Dio perdona. Che, stretto tra le fauci di una storia che è mero artificio e di una visione oltremodo egocentrica, finisce con lo stritolare lo spettatore. Che senz'ombra di dubbio sa perdonare ...
Alla prossima, Signor Refn.
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