Regia di Zack Snyder vedi scheda film
La tetralogia su “Superman” realizzata negli anni ‘80 rappresenta ancora oggi uno dei rari casi per la storia del cinema di un archetipo insormontabile. In barba a tecnologie super moderne e tecniche rivoluzionarie, nel 2006 il maestro del genere Bryan Singer nel suo “Superman returns” aveva preferito stare alla larga dalle lande già battute da Donner, Lester e Furie. Colpa di un alone di mito come ce ne sono pochi altri nella settima arte, quello che è doverosamente proprio del primo cinecomic della storia. Quello stesso alone che ha suggerito a Zack Snyder (già autore dei cinecomics “300” e “Watchmen”) di cambiare ulteriormente prospettiva, trattando del personaggio venuto da Krypton ma al contempo rimanendone ai margini. Paradossale, ma vero, la sceneggiatura trattata nel suo “L’uomo d’acciaio” ha pochissimi punti in contatto con i quattro film originali (ed ancora meno con la creatura di Singer). Quello di Snyder può definirsi un prequel, giacché tratta nell’ampio incipit la storia di Jor-El (interpretato con la medesima faccia che fu di Bud White, John Nash e perfino Massimo X Meridio da Russel Crowe) e del periodo di “socializzazione” sul pianeta terra di Kal-El, poi diventato Superman ed infine Clark Kent. Se Singer si era (s)post(at)o su Krypton prima e si era catapultato poi su territori non battuti da Donner, Snyder se ne estranea totalmente, tanto che la presenza di un personaggio importante come Lex Luthor non è nemmeno accennata. Il motivo è che le vicende, narrate attraverso continui rimandi temporali tra epoche differenti, si concludono con l’entrata di Kal-El nel ruolo di Clark Kent, da (futuro) svampito reporter del Daily Planet.
Si tratta di un Superman quasi “di formazione”, il corrispettivo ideale di quel “Batman begins” appartenente all’altra metà del cielo DC Comics. È perciò il film dove Kal-El, spoglio (momentaneamente) delle convenzioni e delle finzioni che saranno proprie del suo alter ego terrestre, mostra il suo reale carattere kryptoniano (schivo, taciturno, perfino sofferente).
Ecco perché tra gli altri film dedicati al personaggio DC e questa versione esiste un abisso enorme.
Ecco perché nel guardarlo, per chi ha amato l’archetipo così ludico e stentoreo dell’era reaganiana, questo film non sembra nemmeno trattare lo stesso soggetto.
Ecco perché fare confronti appare sostanzialmente fuori luogo, se non addirittura impossibile, dato che l’abisso di cui sopra non è legato al valore formale, bensì a quello sostanziale delle due operazioni.
Dove è invece possibile avventurarsi in un (seppur) sommario confronto è il casting: il ruolo che fu della leggendaria Margot Kidder è storpiato da una Amy Adams mai così a disagio con un personaggio; così come si fa fatica a vedere nel ruolo di Perry White, che fu dell’ottimo caratterista Jackie Cooper, un Laurence Fishburne che pare un pesce fuor d’acqua. Va meglio per il generale Zod, da Terrence Stamp a Michael Shannon il passaggio non è così traumatico. Buona invece la prova del protagonista, il sorprendente Henry Cavill.
Un film sostanzialmente accettabile, forse tirato un po’ troppo per le lunghe, ma soprattutto caciarone e sfarzoso all’inverosimile, che si trasforma in un disaster movie tout court specie quando Zod e Kal-El cominciano a suonarsele tra i palazzi metropolitani (probabile retaggio post-“The avengers”). Interessante l’idea di ambientare ai giorni nostri le vicende, riconoscimento della perpetua, eterna attualità che è propria di Superman.
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