Regia di Zack Snyder vedi scheda film
Chiunque, nei prossimi 500 anni, vedendo i film dopo l’11 settembre 2001, si chiederà fino a che punto la messa in scena della distruzione di Manhattan possa essere considerata come la più ineluttabile fantasia nevrotica di chi continua a rappresentarla. È un trauma così profondo che cercare di rievocarlo può essere considerato un tentativo di accoglierlo (o addirittura di sognare di cambiarlo). L’uomo d’acciaio 3D, l’ultimo “ridesign” del supereroe più popolare di sempre, Superman (l’ennesimo: la letteratura dei supereroi sta alla Hollywood di oggi come il repertorio elisabettiano ai teatri stabili di tutto il mondo), culmina in un’apocalisse newyorchese vivida, sensuale e barocca come ci si poteva aspettare dal regista che con 300 ha dimostrato di sapere usare l’infinito poliformismo del digitale con lo stesso virtuosismo estetico dei corpi di Tiziano e dei cieli del Tiepolo. In realtà, il film si apre con un’altra, altrettanto vivida scena di distruzione, quella di un pianeta, Krypton, ugualmente sofferta: meravigliosi padiglioni che si schiantano sullo sfondo di tramonti incendiari. Sono i momenti di maggiore intensità di una pellicola che i filologi del fumetto potranno interpretare come una evidente lettura alla Marvel (un supereroe in colluttazione con il suo destino e con la responsabilità che ne consegue) di un celeberrimo prodotto DC Comics (il Clark Kent originario era un monumento di equilibrio e determinazione). Ma l’originalità del film (il copione è di David S. Goyer, veterano del restyling di supereroi) oltre a ricostruzioni scenografiche che sembrano citare più la fantasia del Flash Gordon di Alex Raymond che il tratto schematico delle matite orginali di Superman, sta nel far avanzare sul proscenio i due padri (Kevin Costner e Russell Crowe) e soprattutto il loro antagonista, Michael Shannon (forse l’attore più in forma di tutta Hollywood oggi), al quale tocca la domanda cruciale: è giusto distruggere una civiltà per permettere a un’altra di sopravvivere? E anche questo, difficilmente, può aver poco a che vedere con il trauma storico da cui siamo partiti. Non sarà l’ennesimo tentativo di serie o “franchising” - come lo chiamano le riviste di settore - hollywoodiano a dare una risposta alla questione. Ma non è per niente secondario che decida di porla.
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