Regia di Zack Snyder vedi scheda film
Non basta la presenza di Christopher Nolan alla produzione (e al soggetto) del nuovo reboot di Superman per avvicinare questa riedizione del super-eroe DC alla rilettura del collega Batman. La volontà del regista inglese con l’uomo pipistrello era stata di accrescere l’elemento realistico del personaggio costruendo un palinsesto mentale e scenografico via via più veritiero, tratteggiando una psicologia deviante che rendeva plausibile la teatralità costumistica del supereroe e la necessità del mascheramento. Ma Snyder è un coreografo degli effetti speciali che mira allo status di autore polemico e poliedrico, pur non riuscendo a non schiacciare ogni personaggio nei meandri di un lussureggiante allestimento scenico digitale. Nessuna aspirazione alla concretezza vige nel nuovo film di “Nembo Kid”, imputabile in parte alla eccezionalità quasi divina del personaggio principale (Superman non ha, in partenza, lo spessore dolente e consapevole dei super-eroi Marvel e ha poteri eccessivi) ma, soprattutto, all’ambizione di summa tecnico-artistica del film da parte del regista americano. Se il plot saccheggia il Superman di Donner per la premessa e lo miscela al suo sequel firmato da Lester con la presenza dei compatrioti ribelli, la trama viene riorganizzata per proporsi come antefatto significativo alla vicenda, tenendo anche conto dei dieci anni di Smallville che hanno raccontato in tv la presa di coscienza e la conquista del controllo dei propri super-poteri da parte del giovane Clark Kent. Per il resto, si tratta di definire il trauma dell’abbandono (in quanto krytoniano) e del rimorso per il non intervento a salvare il padre (in quanto umano) per definire i parametri in cui far muovere il personaggio e arginarne il dualismo al fine di risolvere la sintesi di alieno e di terrestre (in quanto americano).Nella piattezza recitativa del film, il cui rilievo è stato imposto in post-produzione con l’uso della stereoscopia, non risalta alcun carattere se non per luce indiretta, memore di ogni vecchia incarnazione alla quale si guarda con nostalgia e rammarico. Snyder sembra trovare nei fumetti (300, Watchmen, L’uomo d’acciao) materiale adatto alle proprie visioni, ma si limita a dare forma ad altre immagini sequenziate nel tempo, pre-filmiche ma già cinematografiche, spesso riducendole ad una bi-dimensionalità che la tavola disegnata non ha quasi più ma che il suo cinema eredita perché affezionato alla mera illustrazione. Cultore di una superficialità dopata dal digitale, rafforzata dalla musiche tonitruanti di Zimmer e dalla retorica intrinseca dei temi, Snyder sembra considerare la direzione degli attori un orpello secondario per il film. Lascia Cavill con una costante espressione di rassegnazione a commento della sua missione salvifica e messianica, imprime un adeguato ghigno sadico a Zod e ai suoi luogotenenti, lascia un sorrisetto triste alle reincarnazioni di Crowe dopo il dolore consapevole dell’inizio, e relega a rugose icone le figure di Kevin Costner e Diane Lane, genitori fin troppo umani. Lois Lane è costantemente presente in ogni situazione, con diversa mise ma sempre insopportabilmente saputella, mentre per gli altri ruoli vengono reclutati volti noti - e più efficaci - della serialità televisiva. Tutto ne L’uomo d’acciaio appare solo già visto, riproposto in combinazione aggiornata assieme ad altri dettagli tecnologici con la volontà di impressionare senza minimamente coinvolgere. Il consueto tono grigiastro della fotografia maschera gli onnipresenti inserti digitali, i quali nascondono una trama che spazia tra tempi e luoghi differenti a seguire un flusso di coscienza che si ammanta di stilizzazioni alla Malick (musica evocativa su immagini sfuocate e inquadrate di sbieco) con tono malinconico per l’elegia americana dell’infanzia perduta. Se Kal-El vaga per il mondo nascondendosi nel sotto-proletariato e celando la propria natura come faceva Wolverine, la devastazione imposta a Metropolis eredita il divertimento distruttivo dei film catastrofici degli Anni 90, Armageddon e Independence Day in testa, con un vago sentore di 11 settembre per inquietare all’occorrenza. Da Star Trek si introducono il terraforming (serie classica cinematografica) e il design della nave spaziale tricuspide (reboot di Abrams), con tanto di raggio ammazza-pianeti (e Krypton ha una vaga somiglianza col defunto Vulcano, dominante cromatica a parte). E in The Next Generation già si citava l’idea di una razza umanoide che ha seminato di consimili l’universo, riedita di recente in Prometheus, e le inquadrature spaziali da lungi, con zoomate e aggiustamento di focale, sono da tempo prassi abituale di ambienti fantascientifici cine-televisivi (Firefly e Serenity, Battlestar Galactica, i Star Trek di Abrams). Sullo sfondo del pianeta avito troneggia una luna spezzata, già vista anche nel recente Oblivion e, a dispetto dell’avanzamento tecnologico, volano nella sua atmosfera draghi volanti alla stregua di quelli di Pandora in Avatar, mentre lo stile techno-fantasy, se si può far risalire a Flash Gordon, è ormai consuetudine della fantascienza (Riddick e simili, senza tralasciarne gli elementi trafugati in Guerre Stellari) e non si discosta molto dall’approccio generico di Snyder: creare eroi maestosi destinati al supplizio attraverso un atteggiamento di cavalleresca nobiltà. Con un retrogusto fascistoide per il suo generico plauso del superomismo, il regista abborda però sempre temi volutamente importanti a fare da sottofondo propedeutico - il genocidio, il sadismo o la purezza della razza - per pura presunzione e per ingentilire la rozzezza di una vicenda interessata solo allo scontro primitivo tra forze opposte. Il resto è fondale, da distruggere a piacimento a dispetto di qualsiasi plausibilità, come l’archetipo dell’America profonda di Smallville (ma il confronto tra divino e provincia USA aveva più rilievo ironico in Thor) o di quella urbana di Metropolis, spazzate tutte via dall’avvento dei super-eroi e dei loro super-nemici (come Avengers insegna, con più consapevole sofferenza), sfondo mobile e proiezione fantasmagorica (Sucker Punch) da reinventare e rimodellare senza vere conseguenze, utile e futile perché soltanto funzionale. E allegramente, dopo la distruzione imposta a Metropolis con il centro devastato e i grattacieli abbattuti, Clark Kent fa il suo ingresso in incognito nel lucente palazzo del “Daily Planet” mentre fuori il sole splende di nuovo a promettere altri grigiori in ulteriori apocalittici capitoli.
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