Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film
Affascinato dai luoghi che ha visitato anni prima per un documentario, Diritti prosegue nello scandagliare i temi del suo cinema, offrendo visioni amplificate e diverse rispetto allo scenario nazionale. Ancora una volta ci trascina dentro realtà apparentemente lontane e di difficile lettura, ma la lucidità e l’onestà del suo punto di vista, teso a riprodurre una determinata situazione senza concessioni moralistiche, con la messa fuoco sul contesto e sul tessuto sociale su cui fare maturare gli eventi, non può lasciare indifferenti, in definitiva non si può non sentirsi tirati in causa con ciò che sta dentro lo schermo. In quattro veloci sequenze iniziali si percepisce l’inattualità, l’inadeguatezza di un colonialismo spirituale troppo compromesso con la sopraffazione materiale e lo sfruttamento di comunità che andrebbero accolte nel valore dei propri confini morali, umani e tradizionali. Al seguito di una suora in missione in Brasile, c’è una giovane donna, Augusta, in fuga dal suo mondo, in cerca di sé e del modo di elaborare un’esperienza luttuosa, si lascerà calare nella realtà locale e naturale di quelle terre. Già con il suo primo lungo metraggio, Il vento fa il suo giro, il regista ha documentato l’intromissione di un elemento esterno in una piccola comunità che fa dello stare insieme, uniti dalla stessa condizione di vita, la condivisione della forza di esistere. Il personaggio di Augusta è così “geograficamente” diverso ma intimamente vicino e portatore di valori non mercificabili che anch’esso si pone come comunità in grado di reggere un confronto e un dialogo sullo stesso piano emotivo e comunicativo degli abitanti locali. Diritti dimostra tutta la sua abilità descrittiva nel sezionare visivamente squarci e aspetti mai superficiali della quotidianità, fra gli abitanti del villaggio di Manaus, costruito sull’instabilità delle palafitte, dunque in balia di una natura dirompente, lontano dai quartieri ghettizzanti che ci ricordano le favelas e la deflagrazione umana della City of God (2002 ) Sul piano narrativo forse appare un pò troppo sbilanciata la traccia occidentale con una precisa definizione dei personaggi che si muovono sull’asse familiare Augusta, la madre e la nonna. Pareggiano peraltro (insieme alle innocue sincere vecchiette di un santuario, sempre in preghiera) con la centralità del ruolo femminile a scapito dell’assenza di riferimenti nell’uomo che è ormai un dato comune in ogni parte del mondo. Quando all’interno del villaggio verrà a mancare quel desiderio di solidarietà e di bene comune, la vicenda prenderà forme ancora diverse, e in un altalenante circuito emozionale si trascinerà verso un epilogo che Diritti non lascia cadere nel vuoto, e senza far sollevare alcun tipo di dubbio. Se la sequenza con il rito mistico di Janina, la ragazza brasiliana portata in Italia, apre gli occhi e il cuore verso un altrove universale e indifferenziato che colpisce profondamente, la vicenda brasiliana di Augusta offre poche ramificazioni alla sua definizione, un po’ troppo rimarcata e che abbandona con facilità quella dimensione di confronto con la forza della natura che sembrava poter mettere la protagonista quasi prossima all’ottica mistico filosofica alla Herzog. Tuttavia il film non ne risente, prevale quello sguardo d’insieme che il regista ricerca, l’incontro fra diverse e nuove forme di dolore diventano esperienze vitali, restituiscono un rispetto per l’individuo che anche da un punto di vista laico si potrebbe definire come qualcosa di sacro.
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