Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film
Sembra una metafora del laicismo, si direbbe un manifesto antioscurantista. E invece è la cronaca di un evento realmente accaduto, nel 2005, e narrato dalla scrittrice romena Tatiana Niculescu Bran nel suo romanzo Spovedanie la Tanacu (Confessione a Tanacu). Una ragazza malata, forse affetta da una patologia nervosa o metabolica, e momentaneamente ospitata presso un monastero di montagna, viene trattata come un’indemoniata e muore in seguito alle sevizie subite. Il padre superiore e le suore credevano che la preghiera potesse guarirla. E mentre affidavano la salvezza della sua anima al Signore, la tenevano legata ad una croce di legno. Una misura indispensabile, dicono, per evitare che la sventurata si agitasse e diventasse violenta contro sé e contro gli altri. È il triste epilogo di una storia di fede. Il traumatico risveglio dall’incanto della meditazione, un brusco ritorno alla realtà del mondo, che trasforma la magia delle verità assolute in un abbaglio prodotto dall’integralismo. Quel convento, situato oltre le colline, è un universo a sé stante, autosufficienteed isolato, arroccato sulle certezze dell’ortodossia religiosa che si esprime attraverso categorici divieti e severe prescrizioni disciplinari. È un ordine radicale che segna il percorso e previene ogni pericolosa deviazione dalla strada maestra. L’anima è rigidamente incanalata nel cammino stretto che conduce all’amore di Dio, escludendo ogni altro sentimento umano. Insieme alla tentazione del peccato, viene messa al bando anche la possibilità del dubbio. Il sacerdote possiede tutte le risposte Si dice anche che custodisca un’icona miracolosa, in grado di curare ogni male. E la confessione riesce a riportare la pace nella coscienza, purché sia sincera e priva di omissioni; ogni dimenticanza è infatti origine di grave malessere. Il ritiro spirituale può essere un’esperienza totalizzante, di completo distacco dalla carnalità e di piena immersione nel puro misticismo: ma non può divenire tale per imposizione di un codice comportamentale. In quel luogo la serenità della semplice routine quotidiana è turbata dall’incapacità di affrontare gli imprevisti, quegli eventi che non rientrano nei canoni della vita monastica, e che vengono automaticamente attribuiti all’azione del demonio, che si può combattere soltanto con formule liturgiche e perentorie restrizioni. L’integrità si preserva (o si ristabilisce) in maniera aggressiva, attraverso operazioni che escludono la ragione e violano la libertà personale. Il territorio divino si difende limitando quello in cui vige la giurisdizione umana, che applica le leggi dei desideri, delle emozioni, dei sogni e dei progetti rischiosi, ma anche le norme dettate dal sapere scientifico e dalla struttura logica del pensiero. Ricondurre tutto a Dio fa saltare la naturale concatenazione di causa ed effetto, fa perdere il senso dell’evoluzione che, se non tenuta sotto controllo, può produrre risultati nefasti. Il film di Cristian Mungiu ci trasporta in quella particolare dimensione mentale, procurandoci una temporanea sospensione dello spirito critico: finiamo così per assistere imbelli alla tragedia della povera Alina, partecipando all’attesa che la situazione si risolva da sé, tramite un intervento divino che tutti, intorno a lei, invocano con grande speranza. La “normalità” ultraterrena dell’ambientazione ci avvolge nella sua atmosfera anestetizzante, che rende passivi e fiduciosi, sollevati dalla responsabilità di prendere posizione e dall’onere di compiere scelte difficili. È terribilmente contagiosa la rassicurante illusione che basti esercitare la pazienza e la sottomissione per essere sicuri di operare a fin di bene. Nell’inganno caschiamo anche noi: fino all’ultimo ci sfugge la colpa che ha ucciso una vittima innocente. Cominciamo a rifletterci solo alla fine, quando i protagonisti di questa brutta faccenda usciranno dai confini del loro surreale microcosmo, per percorrere le vie di una città vera, piena di traffico, di gente, di lavori in corso, di intoppi e di ritardi: il caos di tutti i giorni ci saluta, allora, con uno schiaffo salubremente raggelante, che subito ci restituisce la lucidità, facendoci riassaporare la nostra innocua mediocrità di creature attaccate alla terra.
Oltre le colline ha concorso, per la Romania, al Premio Oscar 2013 per il miglior film straniero.
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