Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film
Alina e Voichita si sono amate. Cresciute nello stesso orfanotrofio, dove la prima difendeva a colpi di karate sé stessa e l'altra dalla violenza dei maschi, le due si separarono una volta fuori: Alina fu data in affidamento ad una coppia di contadini, Voichita invece sentì la vocazione e scelse la via della fede. Giunta all'età di ventiquattro anni e ormai affrancatasi anche dalla famiglia adottiva, lasciata per recarsi in Germania in cerca di lavoro, Alina torna in Romania per il ritiro di un diploma e chiede per il periodo ospitalità a Voichita: perché il tempo e la distanza non hanno scalfito i suoi sentimenti, e lo scopo effettivo della sua visita è ricongiungersi a lei e proporle di partire insieme. Accolta in un monastero cattolico ortodosso sperduto tra le colline, spartano e in realtà ben poco ospitale - con un cartello all'ingresso che diffida dall'entrare miscredenti o seguaci di altre religioni, Alina si accorge ben presto che i suoi propositi sono assai difficili da realizzare: Voichita ha infatti interiorizzato i dettami della vita monacale, si sente parte di una famiglia completa in cui il prete è "papà", la madre superiora "mamma", e le altre suore "sorelle", ha rinunciato al piacere effimero dei beni materiali e rifugge dai peccati della carne, cercando in Dio e nella preghiera amore e appagamento. Testarda, impulsiva ed affatto scoraggiata dalla chiusura dell'altra, anzi decisa a convincerla ad ogni costo a venir via con lei, Alina sceglie lo scontro frontale con l'autorità del sacerdote e con la credulità delle donne a lui sottoposte, pagando sulla propria pelle il prezzo altissimo della prepotenza e della follia conseguenti all'osservanza pedissequa della superstizione religiosa.
Quella raccontata nei centocinquanta intensissimi minuti di Oltre le colline è una storia vera, accaduta in Moldavia nel 2005 e denunciata nel libro inchiesta di Tatiana Niculescu Bran Deadly Confession. Cristian Mungiu ne fa un film rigoroso ed asciutto dove tutto è all'insegna di un agghiacciante realismo, dalla rinuncia all'accompagnamento musicale (che cede il passo alle stridenti grida di un'innocente vittima dell'ignoranza), all'alternanza tra le inquadrature statiche (quasi a sottolineare con l'immobilità l'immarcescibilità di riti anacronistici e obsoleti) e i movimenti irregolari della camera a mano (che nella violenza dei corpo a corpo si avvicina e sparisce, si confonde e stordisce), fornendo uno spaccato impietoso ed inquietante della pericolosità sociale dei dogmi e dell'inconsapevole disumanità dei loro seguaci più ligi - che in ossequio alla fede fanno del male in buona fede.
Con invidiabili equilibrio e contegno Mungiu evita la trappola della demonizzazione al contrario, e mostra un'umanità i cui pregi e difetti sono frutto di una tara culturale, più che di intima cattiveria, e in cui non possono essere omesse contraddizioni: così il prete (certo di rispettare l'altrui libero arbitrio) si professa tollerante ma dispensa penitenze, compila liste interminabili di peccati ma viola il settimo comandamento (a fin di bene, a suo modo di vedere), e mentre Alina combatte la propria battaglia impari contro un universo ostile, Voichita vive quella con sé stessa e, insieme al capo e alle altre suore (e non solo), accecati tutti da una catena di fantasiose supposizioni accettate come Verità, scambiano per manifestazioni del Maligno i suoi moti d'ira, agendo di conseguenza e divenendo aguzzini senza dolo, carnefici involontari, boia incoscienti di una ragazza che, solo per amore, aveva cercato disperatamente di infrangere il muro della loro realtà virtuale.
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