Regia di Cristian Mungiu vedi scheda film
“L’uomo che parte, quando torna, non è più lo stesso”. Di qualsiasi viaggio si compia, il cambiamento è certo. Così lo è stato anche per Alina, che torna in Romania, per convincere Voichita ad andare via con lei. Sono cresciute insieme, e si sono amate. Ma Voichita nel monastero ha trovato Dio e Dio è l’amante da cui è più difficile separarsi.
Il cinema mondiale, sono decenni che indaga con forza, in rapporto all’ossessione della religione, o meglio, della parte peggiore della religione, tanto diffusa, da essere catalogata anche come “religiosità popolare”. L’ignoranza e la fede cieca uccidono, provocano sofferenza, disperazione e morte. Ce lo ha ricordato un film che chissà se mai uscirà nelle sale italiane, presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, lo straordinario Paradise : Faith di Ulrich Seidl e qualche anno fa, l’altrettanto bello The Magdalene Sisters (2002) di Peter Mullan, l’interessante Lourdes (2009) di Jessica Hausner, ed ora anche il regista rumeno, Cristian Mungiu, che si affida ai due romanzi di Tatiana Nicolescu Bran, basati su un episodio di cronaca nera. Oltre le colline è il terzo film sceneggiato e diretto da Cristian Mungiu, il regista Palma d’Oro a Cannes 2007 per 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni.
Oltre le colline pone sotto la lente dello spettatore/attore la difficile comprensione, innanzitutto, di due tipi di amore, uno relazionale e l’altro trascendente. Tant’è che, il cartello all'ingresso del monastero ortodosso, ch’è mostrato all’inizio del film, “vietato l'ingresso ai fedeli di altre religioni”, rappresenta una forma non solo di chiusura, ma l’impossibilità di poter neanche lontanamente pensare ad una vita che sia non rigidamente austera e costrittiva, rispetto alle severe regole, molte delle quali, umanamente impossibili da accettare, come il divieto di entrare in chiesa quando si ha il ciclo mestruale, il digiuno, fino all'esorcismo, ecc. Tale assurdità risulta ancora più evidente, dinanzi alla scelta del vescovo, che si rifiuta di consacrare la nuova chiesa, finché non sarà stata affrescata.
Mungiu, più che un film drammatico, ha scritto e girato un vero e proprio horror: è un film che ha tutte le caratteristiche per essere considerato tale, perché si tratta di un orrore che non abita solo nelle quattro fredde e umide mura del monastero, nemmeno riscaldate dall’alito delle anime consacrate, ma è anche presente fuori, attraverso il latrato continuo dei cani. E’ un film durante il quale difficilmente ci si emoziona e sembra che tutto sia già scritto e prevedibile, eppure, è incredibile come, questo straordinario regista, nonostante la lunghezza sempre eccessiva dei suoi film, riesca a creare l’attesa di sviluppi sempre interessanti. Coadiuvato da un eccellente direttore della fotografia, tutto è raccontato in stile minimalistico, con cromatismi minimi che virano dal bianco al nero, ma nel frattempo ‘dipingono’ la forza devastante della religione, dell’amore a tutti i livelli. Al centro di tutto, però, vi è l’uomo, inteso come l’essere a cui conduce ogni forma di rapporto terreno e/o metafisico, insieme all’orrore di chi non ha più una casa o un parente da raggiungere. Tutti i film del regista rumeno, altro non sono che, una continua rivisitazione dell’orrore della guerra e della continua disperazione di chi, ancora oggi, vi è sopravvissuto. Al di qua o al di là di ogni limite naturale e temporale. Un film indispensabile.
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