Regia di Aleksej German vedi scheda film
Ebbene, oggi parliamo di un film per pochissimi. E quando dico pochissimi intendo coloro che possono essere pronti a una visione di questo tipo.
Perché Hard to Be a God è qualcosa di rarissimamente mai visto, qualcosa di un altro pianeta, qualcosa che potrà perturbarvi immensamente, distruggervi, annientarvi, stremarvi, spossarvi, annichilirvi e martoriarvi.
Film della durata di due ore e cinquantasette minuti, diretto da Aleksei Yuryevich (se preferite, Jurevi?) German.
Suo capodopera postumo poiché German è morto il 21 Febbraio del 2013 all’età di settantaquattro anni e Hard to Be a God è stato presentato il 13 Novembre dello stesso anno al Festival di Roma.
Quando German morì, nell’indifferenza generale, solo i suoi aficionado più incalliti sapevano già dell’esistenza di Hard to Be a God, in fremente attesa che questa sua ultima opera magna potesse essere stata completata appieno, in ogni minimo dettaglio, e non fosse rimasta purtroppo parzialmente incompiuta. Temendo che non avrebbero mai visto integralmente la versione desiderata da German. Un po’ così come accade per Stanley Kubrick e il suo ultimo capolavoro, Eyes Wide Shut.
Basato sull’omonimo libro di Arkadiy e Boris Strugatskiy, Hard to Be A God, adattato dallo stesso German e da Svetlana Karmalita, è stato il dream project di German per ben dodici anni. E, fortunatamente, per noi cinefili e amanti dell’arte assoluta, suprema, Hard to Be a God, nonostante la prematura scomparsa di German, ha visto la luce.
Veniamo subiti immersi, grazie alla livida fotografia in B/N di Vladimir Ilin e Yuriy Klimenko, nell’atmosfera rugginosa e nella dissoluta tetraggine mortifera dell’impataccata, abominevole Arkanar, un pianeta dall’ecosistema identico alla nostra Terra e abitato da esseri umani identici a noi. Una voce off però c’illustra che la civiltà di Arkanar è rimasta ferma al più lurido, brutale, triviale e fangoso medioevo. E non è mai andata avanti. Non è avvenuto nessun Rinascimento e la gente vive miserissima, miserrima e lendinosa nella povertà più sconcertante e incolta.
Un gruppo di scienziati della Terra è approdato ad Arkanar per studiare da vicino questi lerci, sozzi uomini mai evoluti, per studiarne i comportamenti da vicino e tentare disperatamente di farli progredire. Ma sono impossibilitati dall’operare e dall’interferire violentemente all’interno delle loro cristallizzate anime scimmiesche, perpetuamente ancorate a un’immutabile, allucinante bestialità senza futuro, a una terribile selvaticheria immonda. E non possono ucciderli. Come faranno questi scienziati a far sì che scocchi nei cuori impietriti e oscenamente primitivi della popolazione di Arkanar una qualche forma di palingenesi salvifica, affinché possa risorgere rinascente in esse la scintilla dell’incivilimento e possa vibrar in loro un fulgore illuminante, un tellurico, smottante, liberatorio input che le liberi da tal olezzante, putrido, pestifero, porcellesco stato tribale invincibilmente (incivilmente, appunto) indecente, tenacemente sospeso in una vita tanto immorale e spettrale?. Come potranno questi scienziati infondere agli uomini di Arkanar la virtù coscienziosa di una vita moralmente meno empia e disgraziata?
Uno di questi scienziati, Don Rumata (il possente Leonid Yarmolnik), si fa venerare come un Dio da tal sacrilego, primordiale, cancerogeno mucchio selvaggio di disgustosi, repellenti uomini dementi, stolti, coprofagi, bisunti e luridi, flatulenti, dai visi deformi, dalle pance debordanti, nani e donne circensi, afflitti da inguaribili, virali deformazioni fisiche e da bruttezze ributtanti, inguardabili. Repulsivi freak che si scaccolano e si spalmano sulla faccia addirittura grossi escrementi e divorano bavosi perfino lo sterco dei cavalli.
Ma forse il tanto adulato e riverito Rumata non è chi dice di essere.
Ad Arkanar peraltro piove quasi sempre. Piogge torrenziali che fan debordare i fiumi melmosi, un luogo infimo ove l’urbanità degradata è pullulata da palafitte rudimentali che galleggiano nel pantano merdoso di un’orripilante, sottosviluppata, infetta civiltà insanabile e insalvabile.
Onestamente, Hard to Be a God non è quel film così maledetto per stomaci fortissimi che si è detto.
Ché di squallido sudiciume, di turpitudini scurrili e sconcezze vomitevoli e terrificanti ne abbiamo viste parecchie. Parlo per quelli della mia generazione.
Quello che stupisce e sciocca è semmai l’angosciosa, soffocante, liturgica e stalinista messa in scena di German, accostabile in molti punti all’immane Faust di Aleksandr Sokurov, che incede in vertiginosi, profondissimi e al contempo angusti piani-sequenza interminabili, propende verso carrellate zigzaganti e spacca lo schermo con apparizioni sorprendentemente stomachevoli. Fra volti animalescamente, schifosamente luciferini e agghiaccianti zoomate impavide di qua e di là. Che strozzano asmatiche il nostro respiro turbato.
La grande bellezza di Hard to Be a God consiste nell’averci presentato un’umanità orrida e putrescente che altri non era che la nostra, se non peggio, come infatti sostenuto da Umberto Eco (È probabilmente difficile essere un Dio ma è altrettanto difficile essere uno spettatore, di fronte a questo terrorizzante film di German), ai tempi del Medioevo.
Un’umanità che sarebbe stata per noi sempre quella se dall’imbarbarimento senza fine non fosse nato e scattato nell’animo di noi terrestri il dono scientificamente e scientemente razionale, poderoso dello scibile modernista, la forza (di)struggente del progresso rinascimentale e luministico.
Un’umanità, la nostra, che potrebbe tornare nell’ecatombe infernale più apocalitticamente ferina e appunto inumana soltanto se, imprudenti, ci ammalassimo, come già sta accadendo in questa confusa contemporaneità regressiva, del morbo dell’istintività più brada, laida e immangiabile...
Pare che German, ancor prima di morire, ci avesse profeticamente, diabolicamente avvertito, dall’altro(ve) spazio-tempo di Arkanar, sulle possibili conseguenze della nostra illusoria, bilicante realtà.
La nostra realtà, come i più saggi filosofi sanno (infatti ad Arkanar i pensatori e i topi di biblioteca sono confinati all’emarginazione più oscurantistica, sono perseguitati, segregati e impiccati), è soltanto una labile parvenza di realtà.
È la realtà che la nostra mente e il nostro substrato culturale, socio-economico ed etico-estetico ha costruito e introiettato in anni e millenni di evoluzione.
Ma forse è solamente tutta una ridicola, impossibile, ingannevole, tragica utopia.
Hard to Be a God è come un film-libro di Lovecraft girato da un russo che sapeva benissimo cos’ è il mondo e il concetto assai alterabile, variabile, mutevolissimo di realtà.
Stiamo in guardia...
Col pretesto in camuffa di un assunto da fantascienza distopica, Hard to Be a God è invero un raggelante horror glacialmente umanista.
Il ritratto crudamente iper-realista della nostra umana nudità bruttissima.
di Stefano Falotico
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