Regia di Aleksej German vedi scheda film
Arkanar è il pianeta più vicino alla terra. I suoi abitanti non sono per nulla dissimili agli esseri umani, l'unica sostanziale differenza è che vivono “800 anni indietro”. Stanno quindi solo adesso conoscendo il loro medioevo, ma il Rinascimento sarà difficile da instaurare dato che il potere costituito perseguita ferocemente ogni espressione del sapere. Anche chi sa solo leggere e scrivere è in pericolo. Per cercare di porre in freno a questa barbarie, dalla terra sono stati mandati alcuni osservatori che in incognito devono fare quanto gli è possibile per salvare dalla gogna gli ultimi custodi della conoscenza. Lo scopo è quello di aiutare l'intero genero umano nel processo evolutivo, ma è vietato intervenire per cambiare il corso degli eventi. Tra questi c'è Don Rumata (Leonid Yarmolnik) che non ce la fa a starsene fermo e quindi si mette alla ricerca di un medico di nome Budakh (Eugeny Gerchakov) e liberarlo dalle grinfie del potente cardinale Don Reba (Aleksandr Chutko), il primo consigliere del Re, capo della repressione oscurantista. Poi Don Rumata si fa forte di essere avvertito dalla popolazione come il figlio del Dio Goran, e quindi un Dio esso stesso, chiamato a salvare chi con la propria conoscenza può essere d'aiuto per il futuro dell’intero universo.
“È difficile essere un Dio” di Aleksej Jurevic German è un film dall'affascinante resa figurativa che riesce a catapultare chi guarda in un flusso ininterrotto di eventi nonostante che a questi sia difficile conferire una lineare progressione narrativa. Come in un quadro di Hieronymus Bosch o di Pieter Bruegel, un insieme composito di fatti sono contenuti all'interno di una stessa inquadratura, ma con la fondamentale differenza che nel film di German nulla tende all'esaltazione ieratica della bellezza mentre tutto è fatto partecipe della rappresentazione in chiave allegorica del brutto che precede il caos più totale.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo fantascientifico dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, gli stessi autori di “Picnic sul ciglio della strada” che ispirò Andrej Tarkowskij per “Stalker” e di “Un miliardo di anni prima della fine del mondo” da cui Aleksandr Sokurov trasse il suo “I giorni dell’eclisse”. Tutti film accumunati dalla rappresentazione in chiave allegorica di un universo distopico per riflettere su quanto l’esercizio dispotico del potere abbia sempre temuto la propulsione creativa della conoscenza.
La forza del film sta nella sua struttura volutamente antinarrativa, funzionale ad accrescere il senso di confusione imperante e fare della regia l'unica entità abilitata a seguire una sua autonoma volontà. Il caos che è dentro l'inquadratura rispecchia la denuncia di un mondo che mette al bando ogni manifesta espressione di intelligenza. Così come l'incomprensibilità di ciò che si vede e si sente rispecchia le fattezze di un ambiente “acquitrinoso” retto su delle coordinate comportamentali totalmente dissimili da quelle con cui si è soliti orientare azioni e sentimenti, pensieri e parole. Arkanar è un mondo simbolico percorso dalla caotica delineazione della degradazione umana, una sarabanda archetipica abitata da innumerevoli segni iconoclasti.
Anche la macchina da presa si muove in maniera disarticolata, in linea con l'assunzione di un linguaggio cinematografico che si vuole rendere quanto più simbiotico possibile alle finalità speculative del narrato. L'obiettivo è sempre troppo vicino alle cose, mai alla giusta distanza, adotta un taglio prospettico che sembra volutamente impedire all'occhio umano di dotarsi di qualche autonoma coordinata visiva, di darsi una parvenza di ordine in mezzo al disordine imperante. Detto altrimenti, la tecnica di ripresa si innesta alla perfezione con l’organizzazione della messinscena, con l’intento di farci sentire parte di quella umanità chi ha avuto un suo perché nella storia delle vicende umane. Un bianco e nero virato in grigio abbaglia di una stessa luce tanto gli interni claustrofobici e inospitali quando gli esterni disarticolati e paludosi, L'uso del montaggio sembra farci assistere a pochi, lunghissimi, piani sequenza, quando invece è l'uso ammorbidente dei raccordi e delle transizioni ad offrire la sensazione di essere partecipi di un ininterrotto flusso di eventi. Questo flusso corrisponde quasi sempre al passo di Don Rumata, al punto da far apparire la sua ricerca del dottor Budakh un viaggio in soggettiva in compagnia della sua umorale e isterica personalità.
Siamo in un luogo che non è il pianeta terra, siamo in un medioevo che prima di conoscere il suo Rinascimento si è dato all'accumulo insensato di ogni atrocità. “Dove trionfano i grigi alla fine … arrivano sempre i neri”, dice Don Rumata. Parole che indicano l'aggravarsi di una situazione già problematica per le sorti della ragione critica, la presa di coscienza che il peggio è inevitabile se non si interviene con elementi di discontinuità tra l'essere e il dover essere, tra la passiva accettazione dell’esistente e gli inevitabili sviluppi. Perché Don Rumata è l'emblema dell'uomo che non accetta di rimanere un osservatore passivo del continuato oltraggio alla conoscenza, di fare da semplice scritturale di un sapere che non produce più fiori colorati. Poi lui è avvertito come una sorta di divinità laica, capace di insinuare negli altri un’indistinta idea di salvazione. Ma è difficile intervenire nel corso della storia per deviarne gli esiti. È difficile salvare la conoscenza senza essere inghiottiti dall'orda insenziente della moltitudine. È difficile rimanere umani quando la miseria morale e materiale insieme è diventata l'unica bussola riconoscibile in un mondo votato all'autodistruzione. “Vi annienterei tutti. Ma è difficile essere un Dio”, tuona solenne Don Rumata.
“È difficile essere un Dio” è dunque un film estremo che dimostra come ogni volta si possa usare la comunicazione per immagini per orientare lo sguardo che vuole essere attento sullo stato delle cose in una maniera sempre originale e rinnovata. Un film che, in buona sostanza, riflette sull'impossibilità a costruire una civiltà veramente civile e pacificata ma che occorre agire come se ci si potesse prima o poi riuscire. Non c'è alternativa a questo modo di essere, a patto di non accettare di vivere in un mondo “futuribile” il quale, senza soluzione di continuità, ammassa fango e merda, sputi e piscio, sangue e pioggia, carcasse di animali e cadaveri impiccati, carne putrefatta e interiora maciullate, corpi deformi e pensieri deformanti. Proprio come Arkanar, l'universo distopico che Aleksej Jurevic German rende come la proiezione allegorica di cosa può (ri)diventare il genere umano se cede il passo all'oblio della ragione e smette di pensarsi come coscienza critica attiva nel rapporto col corso degli eventi. Grande Cinema.
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